Corriere della Sera - La Lettura
«Ti droghi? Sei gay?» Processo al figlio ribelle
In una scuola cattolica si allestisce un tribunale dopo un tema svolto da un diciottenne: la suora preside convoca il padre incapace di capire. A Brescia l’esordio drammaturgico di Daniele Mencarelli. La regia è di Piero Maccarinelli
Due adulti e un ragazzo. Tre vite si incrociano e si confrontano duramente nell’ufficio di presidenza di una scuola cattolica. La preside è suor Lucia, l’alunno diciottenne è Samuele, il padre del ragazzo è Marco. Motivo della riunione è il particolare contenuto di un semplice tema svolto in classe dall’alunno, che viene chiamato a risponderne. E quella che doveva essere una banale riunione scolastica si trasforma in un processo, dove ognuno è giudice e imputato.
Si intitola Agnello di Dio il testo teatrale di Daniele Mencarelli (Premio Strega Giovani 2020 con il romanzo Tutto chiede salvezza) che il 26 aprile debutta al Teatro Sant’Afra di Brescia con la regia di Piero Maccarinelli, poi in tournée. Nel ruolo del ragazzo il giovane Alessandro Bandini, il padre è interpretato da Fausto Cabra, la preside è impersonata da Viola Graziosi.
Dunque, che cosa c’è scritto, di tanto grave, nel tema incriminato?
DANIELE MENCARELLI — Il titolo del tema, proposto agli studenti dell’ultimo anno di liceo, voleva essere allettante: immaginate la vostra festa della futura laurea, descrivendo in dettaglio i luoghi, le persone, i sentimenti. Lo svolgimento di Samuele è lapidario: la mia festa di laurea non ci sarà e, al suo posto, vorrei fare un enorme falò per gettare nelle fiamme tutto quello che mi hanno fatto credere... così festeggerò la mia liberazione. Un’affermazione ritenuta allarmante, perché palesa un malessere dello studente. La preside convoca padre e figlio.
PIERO MACCARINELLI — Samuele, in
realtà, ha leggeri disturbi dell’apprendimento: dislessia e discalculia. Viene curato anche con psicofarmaci e rimprovera il padre di volerlo «riparare» come una macchina che viene portata dal meccanico. Il vero problema che rinfaccia al genitore, uomo in carriera, è di non avere con lui un reale rapporto familiare. Gli dice, senza mezzi termini: io non so chi sei e tu non sai chi sono io. Cosa emerge dal confronto a tre?
DANIELE MENCARELLI — Siamo in una scuola cattolica, un centro d’eccellenza per i figli della futura classe dirigente. La preside e il padre rappresentano due forme di potere educativo e, nel tentativo di trovare la causa e l’effetto, tirano fuori una serie di pregiudizi rispetto al malessere del ragazzo, senza riuscire a restituirgli un motivo per il quale abbia senso continuare gli studi. Quali pregiudizi?
PIERO MACCARINELLI — Il padre attribuisce lo strano comportamento del figlio a due cose e glielo chiede espressamente: ti droghi? Sei omosessuale? In altri termini, secondo lui, i problemi nascosti del ragazzo potrebbero consistere in queste trasgressioni, ma Samuele ribatte che non si droga e non è gay. Insomma, nessuno dei due adulti si adopera per capire le vere ragioni del suo dissenso, il motivo per cui egli vuole bruciare tutto quello che gli è stato insegnato e ripartire da zero.
DANIELE MENCARELLI — È un continuo scontro tra i personaggi, nel corso del quale vengono a galla anche segreti mai confessati e una sorta di analfabetismo affettivo. In quell’aula da tribunale scolastico saltano tutte le apparenze, le gerarchie anagrafiche. Samuele parla una lingua che preside e padre non capi
scono, perché è piena di interrogativi rispetto al significato della vita. Le sue domande sono molto scomode e imbarazzanti per loro, mentre l’alunno è capace di rispondere, di difendersi eroicamente, di ribattere colpo su colpo. Quali sono questi segreti inconfessati?
PIERO MACCARINELLI — Quello del colpo di scena finale preferirei non svelarlo, però posso dire che dal colloquio emergono significativi fatti pregressi. Il padre ha frequentato la stessa scuola ed era in classe proprio con Lucia, all’epoca studentessa e non ancora suora, figlia del portinaio dell’istituto. Si aggiunge poi un altro personaggio, suor Cristiana (impersonata da Ola Cavagna), che vive nell’istituto da cinquant’anni: ha molto a cuore il destino dei ragazzi, è l’unica che davvero ne comprende le problematiche, rappresenta la bontà, l’altruismo, ma nella scala gerarchica occupa l’ultimo scalino, quindi non può essere d’aiuto a Samuele.
DANIELE MENCARELLI — Il padre è oltretutto uno dei finanziatori della scuola, quindi è molto alta l’attenzione e la deferenza, l’assoluto rispetto nei confronti delle sue richieste, dei suoi desiderata.
Qual è il significato del titolo?
DANIELE MENCARELLI — Ogni nuova generazione viene offerta in sacrificio a ciò che le generazioni precedenti hanno costruito in termini di potere, di interessi e compromessi sociali. È l’eterna resa dei conti tra padri e figli, il vecchio adagio in base al quale i giovani disperdono i sacri valori degli adulti, in nome del proprio arrogante, dissoluto, egoismo. La verità, a mio avviso, è un’altra: i ragazzi si aprono alla vita guardandola con occhi puri e liberi, con il desiderio di reinventare un mondo più giusto. Siamo noi adulti a esserne terrorizzati e, a volte, invidiosi del dono che loro hanno e noi non più: la giovinezza. Samuele è l’agnello sacrificale, perché non riconosce e non accetta il modo di vedere del padre e della preside.
PIERO MACCARINELLI — Il testo riflette sull’incomprensione tra i genitori di oggi e i loro figli, che magari vengono viziati, senza però godere di un’importante presenza genitoriale troppo spesso distratta da impegni lavorativi, da mete di ambiziosi successi che non lasciano spazio ad altro. Qual è allora la formazione dei giovani in famiglia e poi a scuola? Un tema su cui ragionare. Per questo ho chiesto a Mencarelli di scrivere quest’opera per me, dopo avere letto i suoi romanzi e in particolare quello con cui ha vinto lo Strega Giovani. Per Mencarelli è un debutto come drammaturgo... DANIELE MENCARELLI — Assolutamente sì. Amo molto il teatro e, anche nei miei romanzi, la scrittura procede in un susseguirsi di scene, perché il racconto deve essere vissuto nei corpi, nei gesti, nei comportamenti dei personaggi che rappresento. Insomma, credo di poter affermare che l’approdo al palcoscenico del mio modo di fare letteratura era, in qualche modo, naturale e inevitabile.
In autunno andrà in onda su Netflix la serie tratta dal suo romanzo «Tutto chiede salvezza», che nasceva da un’esperienza molto personale. DANIELE MENCARELLI — Una notte di follia del 1994. Avevo vent’anni e mi guadagnavo da vivere vendendo climatizzatori. In un piccolo appartamento stavo tentando di convincere una copia di anziani a comprarne uno. A un certo punto esce da una stanza il figlio, un quarantenne che, a causa di un incidente stradale, aveva una disabilità. Si siede vicino a me e comincia ad accarezzarmi. Non so cosa mi sia accaduto, sono scappato. Ero fuori di testa e, prima di tornare a casa mia, mi fermo a prendere tre grammi di cocaina, poi finisco tutto l’alcol che trovo in giro per casa. Una miscela esplosiva. Dopo essere stato sedato, mi risveglio in un Tso. Ci passo una settimana e lì ho conosciuto altri pazienti, persone straordinarie... ho voluto raccontare le loro storie. È stata una forma di autoanalisi.