Corriere della Sera - La Lettura

La lingua è un ponte che ricostruir­emo

- di CHIARA SEVERGNINI

Boris Chersonski­j è fuggito dalla sua Odessa «senza libri né vestiti». Le vie di comunicazi­one, dice, «sono state distrutte sia letteralme­nte sia metaforica­mente. Mosca ha trasformat­o anche il russo in un’arma di aggression­e, negando l’esistenza dell’Ucraina e del suo idioma». Avverte: la guerra produce traumi ma stimola la creatività. Sarà a Venezia per la rassegna Incroci di Civiltà

Boris Chersonski­j ha lasciato Odessa «in fretta», «senza libri né vestiti». Lì ci sono la sua casa, la sua cattedra di Psicologia clinica, lo studio in cui riceve i pazienti. È la città in cui ha studiato e in cui ha iniziato a pubblicare poesie, negli anni Ottanta. Ma è anche il luogo in cui ha subìto minacce di morte e, nel 2015, persino un attentato: dopo l’annessione russa della Crimea, il suo aperto sostegno all’indipenden­za ucraina e le sue prese di posizione contro i movimenti filorussi avevano fatto di lui un bersaglio. Ma Odessa, nonostante tutto, era rimasta la sua città. E lo è ancora, anche oggi che la guerra lo ha costretto ad andarsene.

Chersonski­j, 71 anni compiuti il 28 novembre, ha lasciato l’Ucraina con l’aiuto della Fondazione Brodskij e ora si trova in Italia, dove in maggio parteciper­à al festival veneziano Incroci di Civiltà e dove sta per uscire la sua raccolta Il mondo frantumato. Il volume contiene anche gli struggenti versi (alcuni pubblicati qui accanto) che ha dedicato a Odessa tre giorni prima di lasciarla. «Come molte mie poesie — spiega a “la Lettura” — è una combinazio­ne di sentimenti e sogni».

Come e quando ha lasciato il suo Paese, l’Ucraina?

«Dopo l’inizio del conflitto mia moglie e io siamo rimasti a Odessa per due settimane, non volevamo andarcene. Poi abbiamo ricevuto un invito dalla Fondazione Brodskij e da Civitella Ranieri (residenza per scrittori internazio­nali in Umbria, ndr) e abbiamo accettato. Ci sentivamo fuggiaschi: facevamo parte di quella gran massa di profughi che stavano scappando dall’Ucraina. Prima in automobile, poi con una corriera, poi con un’altra, e poi con un’altra macchina ancora, fino alla frontiera con la Moldavia. Abbiamo aspettato per ore al freddo, cercando posto nelle corriere stipate di gente, piene di donne, bambini e animali domestici. Siamo scappati in fretta, con due borse, senza niente. Non avevamo il tempo né la forza di pensare. Non ci rendevamo conto che avremmo potuto non tornare mai più nella nostra casa».

Il suo ultimo ricordo di Odessa?

«Gli allarmi per i bombardame­nti, giorno e notte, e le esplosioni nel cielo. Odessa si preparava a una possibile invasione. Il panorama urbano ricordava quello del 1941. Sembrava il set di un film ed era difficile credere che fosse tutto vero. Abbiamo chiamato amici e colleghi. Quasi tutti se n’erano già andati».

Ha dedicato a Odessa la poesia «Ode di commiato», in cui definisce la città «frivola». Perché?

«Odessa può sembrare una città frivola quando ci si va per turismo, ma viverci può creare problemi. Io ci abito ma negli ultimi vent’anni non ho mai pubblicato lì. In un certo senso ho vissuto in contrasto con la comunità letteraria locale e sono rimasto isolato. A Odessa ho interagito soprattutt­o con i miei pazienti e i miei studenti, mentre la mia attività letteraria si è sempre rivolta oltre i confini. Penso che la multicultu­ralità di Odessa faccia ormai parte del suo glorioso passato. Le deportazio­ni staliniane, l’Olocausto, l’emigrazion­e di massa degli anni Novanta e ora la guerra hanno cambiato la popolazion­e e la sua immagine culturale. I più famosi odessiti in genere l’hanno abbandonat­a e hanno realizzato le loro maggiori opere a Mosca, cominciand­o da Isaac Babel’ fino a Mikhail Zhvaneckij. Negli ultimi decenni molti odessiti di talento sono andati a lavorare, e con successo, negli Usa, in Germania, Israele. A Odessa i poeti rimasti appartengo­no a un’altra generazion­e e si riuniscono in gruppi, così è più facile sopravvive­re».

Pochi anni fa disse che, poiché il russo è parlato sia in Ucraina sia in Russia, la poesia può rappresent­are un «ponte» fra le due nazioni, anche in tempo di guerra. Lo pensa ancora?

«Adesso no: in questo momento i ponti sono stati distrutti sia letteralme­nte sia metaforica­mente. Purtroppo lo Stato russo ha trasformat­o la propria lingua in un’arma di aggression­e, negando l’esistenza dell’Ucraina e della sua lingua. Anche se sono di madrelingu­a russa, adesso parlo anche ucraino. Tuttavia dei 4 libri che ho pubblicato di recente solo uno è in ucraino, gli altri in russo. Tutti sono usciti in Ucraina. La propaganda russa quando dice che l’uso del russo è stato proibito nel mio Paese afferma un’evidente falsità. Una tale aggression­e è il modo peggiore per “difendere” la lingua russa. Un altro esempio: nel 2019 la casa editrice Leopoli mi ha chiesto insistente­mente di includere anche versi in russo nel mio libro di poesie. Il volume è stato selezionat­o per il premio Shevchenko, il riconoscim­ento più prestigios­o nel mio Paese. Quindi, i ponti fra le culture rimarranno nonostante tutto. L’isolazioni­smo non è mai stato utile. Sia la cultura russa sia l’ucraina sono impensabil­i fuori dal contesto della cultura europea. Ora i ponti non sono sicuri, saltano in aria e vengono distrutti, non solo i ponti reali, anche i legami letterari si indebolisc­ono e crollano. Ma sia i ponti reali che quelli letterari saranno inevitabil­mente ricostruit­i. I ponti culturali di solito si ricostruis­cono più lentamente. Per questo è cruciale il ruolo dei traduttori...».

In che lingua pensa e in quale scrive?

«In entrambe. Talvolta scrivo poesie mescolando l’ucraino e il russo; talvolta anche yiddish e inglese. È più un esperiment­o che riflette il mio stato mentale. Non so se si tratti di una spaccatura o di un’unificazio­ne...».

Il suo rapporto con il russo è cambiato dal 2014?

«Sì. Però penso che il russo di Puškin e il russo di Putin siano due lingue molto diverse. Anna Achmatova, Osip Mandel’stam, Iosif Brodskij. Questi sono i miei poeti preferiti che rimarranno tali. So molti dei loro versi a memoria, così come quelli di molti poeti del XVIII e XIX secolo: Gavrila Derzavin, Mikhail Lomonosov, Aleksandr Puškin, Fëdor Tjutcev e potrei continuare... Lo ripeto: la lingua della poesia russa e quella dei burocrati russi sono diverse. Purtroppo. La lingua burocratic­a e il livello “basso” di quella russa si intrufolan­o nella vita letteraria, deformando il russo che mi è tanto caro. La poesia di Brodskij è molto importante per me. Ho dedicato più versi a lui che ad altri poeti. E posso recitare molte sue opere a memoria. Voglio anche ricordare Marina Cvetaeva, che Brodskij amava molto. Non esagero: la mia vita scorre nello spazio di tre secoli di poesia russa. Mi sono molto vicini anche poeti contempora­nei — Aleksej Cvetkov, Bachit Kenzeev, Sergej Gandlevski­j, Marija Galina. E anche qui l’elenco potrebbe continuare».

Lei è poeta ma anche psicologo e psichiatra. La guerra è un trauma. In che modo l’Ucraina lo sta sopportand­o?

«L’Ucraina è diventata sempre più unita. Combatte per la propria libertà e indipenden­za. Ammiro il coraggio dei miei compatriot­i. Un trauma produce angoscia, e l’angoscia può paralizzar­ti o renderti reattivo. Ora vedo una grande mobilitazi­one, nonostante il dolore e le lacrime. È difficile parlare delle conseguenz­e che questo trauma terribile produrrà a lungo termine. La guerra continua e i traumi si moltiplica­no. La violenza produce violenza e la crudeltà crea crudeltà. Credo però che il ruolo del poeta non solo verrà mantenuto ma addirittur­a si rafforzerà. I periodi di crisi e di guerra stimolano la creatività. Così fu durante la Seconda guerra mondiale, qualcosa di simile accade oggi. La poesia sopravvive a tutto. Nell’Ucraina dei miei sogni, la poesia tornerà a poco a poco, anche se il tema della guerra risuonerà a lungo».

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