Corriere della Sera - La Lettura
La lezione della maestra Meglio i cannibali degli uomini in guerra
Selma Lagerlöf fu la prima donna vincitrice del Nobel. Insegnante nella Svezia profonda, nella parabola di perdita e redenzione di «Bandito» indica valori che l’attualità pare negare
Vestita di velluto lilla come una regina da saga, adorna di ricchi gioielli, «fra i quali lampeggia, gloriosa, la medaglia d’oro del Nobel»: così Grazia Deledda ricordava Selma Lagerlöf sul «Corriere della Sera» del 23 novembre 1927, in un articolo pubblicato in occasione dei settant’anni della scrittrice svedese che, in anticipo di quasi un ventennio rispetto a lei, nel 1909 aveva vinto, prima donna, il riconoscimento letterario dell’Accademia di Svezia. Si può dire che le due scrittrici, geograficamente molto lontane tra loro, ma con una certa affinità tematica, fossero amiche: Deledda era andata a trovare Lagerlöf anche in Svezia, nel paese natìo, dove «Selma fu, come Ada Negri, piccola maestra rurale». Un editore che pubblicava entrambe le aveva fatte incontrare e la scrittrice svedese aveva aperto la porte della «sua regale intimità, dai saloni ricchissimi alla limpida cucina ove le domestiche preparano il pesce, affettano il prosciutto di renna e cuociono il pane del nord, le patate che verranno servite con cucchiai d’oro in vassoi d’argento foderati di antichi merletti».
Parlavano entrambe (male, specifica Deledda) il francese, ma Lagerlöf capiva benissimo la nostra lingua perché conosceva l’Italia, sopratutto la Sicilia dove, nell’immaginario borgo di Diamante alle pendici dell’Etna, aveva ambientato il suo romanzo I miracoli dell’Anticristo, storie di gente semplice e di una cultura permeata da un profondo spirito religioso. I regni delle leggende e le pieghe più sottili dell’animo umano sono ugualmente note a Lagerlöf che attinge alla tradizione orale della sua terra per creare saghe di grande modernità e inventiva, come Uomini e troll, dove i desideri degli umani e i poteri di creature soprannaturali diventano lo specchio della condizione umana. O Jerusalem, in cui una trentina di agricoltori di uno sperduto villaggio svedese si trasferisce a Gerusalemme per unirsi a una setta millenarista in attesa del ritorno di Cristo. Ma sono soprattutto due i romanzi ai quali Lagerlöf deve la sua fama: La saga di Gösta Berling («un libro che brucia» lo definì Marguerite Yourcenar) e Il meraviglioso viaggio di Nils Holgersson, dove un ragazzino monello, ridotto a una grandezza minuscola da un folletto, viaggia attraverso tutta la Svezia a dorso di un papero.
Una vicenda di redenzione, rinascita e riscatto, che ha l’andamento e il tono delle parabole bibliche è quella che racconta in Bandito, da poco uscito per Iperborea, editore di numerosi libri della scrittrice. Al centro c’è una piccola comunità di Grimö, isola sulla costa occidentale della Svezia, dove un giorno — siamo all’inzio del Novecento, tra il 1909 e il 1916 — un uomo, Sven Elversson, torna dopo aver partecipato a una spedizione britannica al Polo Nord. Quella non è più casa sua, i genitori, gente semplice, l’hanno affidato bambino a una aristocratica coppia inglese perché fosse educato da gentiluomo e diventasse il loro erede. Ma in quella spedizione all’ottantesimo parallelo le cose sono andate molto male: imprigionati dai ghiacci, in preda alla paura e alla fame, un uomo si è tagliato la gola per la disperazione e i compagni per sopravvivere se ne sono cibati. Di fronte all’imperdonabile peccato di cui si è macchiato Sven, il cannibalismo (anche se di quei momenti in preda alla febbre e al delirio non ricorda nulla), i genitori adottivi lo hanno ripudiato costringendolo a tornare nella casa della famiglia naturale. Guardato con ribrezzo e disapprovazione da tutti, Sven, di animo umile e mite, accoglie gli insulti con un sorriso remissivo e cerca di riconquistare un posto nella comunità moltiplicando la disponibilità nei confronti del prossimo. Ma i compaesani «hanno il cuore così pieno di fede e di rettitudine, che non c’è più posto per la pietà» e il pastore lo bandisce pubblicamente durante un sermone.
Lagerlöf intreccia la vicenda di Sven con quella di Sigrun, la giovane e bella moglie del pastore (anche su di lui, erede di una stirpe di giganti, grava un’antica maledizione) e trascina le loro sorti nel pieno della Prima guerra mondiale, con i morti della battaglia dello Jutland portati a riva dalla corrente e tirati a bordo delle barche dalle reti dei pescatori insieme ai merluzzi. Nella narrazione, ricca di echi delle leggende nordiche e rivestita da uno stile severo da Antico testamento, l’autrice innesta un autentico afflato pacifista che porta la riflessione su temi cruciali e, a più di un secolo di distanza, drammaticamente attuali: «Forse presto si sarebbe tornati a un’epoca in cui quello sterminio là fuori nel grande mondo sarebbe cessato, in cui si sarebbe potuto pensare ad altro che alla guerra e non essere più tormentati giorno e notte dal pensiero di madri e vedove in lutto, di rifugiati atterriti e prigionieri morti di stenti». In quello che può essere considerato un esplicito manifesto contro la guerra, Lagerlöf cerca di promuovere l’idea che uccidere un vivo possa diventare un tabù inviolabile quanto cibarsi di uno morto. La grande bestia, la guerra, fa dire alla veggente Lotta, è al servizio della morte: perché il cannibalismo provoca orrore e ripugnanza, mentre non provoca la stessa reazione la carneficina di migliaia di uomini?
La scrittrice approda a una risposta nelle pagine finali attraverso la voce del pastore che facendo ammenda per l’ingiusto trattamento riservato a Sven, chiama i concittadini a riflettere sulla sacralità della vita. Ma è la vita (umana) stessa, con il groviglio di passioni che si agita in ogni animo, a complicare l’apparente semplicità della questione. E Lagerlöf lo sa bene: l’aspetto più interessante del romanzo, infatti, è — come scrive Chiara Valerio nella postfazione — che nonostante gli intenti siano pedagogici, l’educazione non procede per azioni edificanti, ma per cadute, errori, peccati. La scrittrice va a cercare la grandezza nascosta sotto le più povere esistenze abbracciando tutto ciò che è umano, a cominciare dalla colpa. Quasi nessuno ne è esente in questa storia dove il realismo, il soprannaturale, l’immaginario nordico si intrecciano in modo originale: ci sono visioni in cui si possono vedere i destini degli uomini, morti che parlano, gelosie, tradimenti, furti, omicidi, azioni turpi compiute anche da anime pure. E intorno un paesaggio drammatico e a tratti disabitato, racchiuso tra la costa ovest e l’interno rurale. Lo domina il contrasto tra giorni brevi e notti lunghe, tra mare aperto e rocce aspre, tra sole e ombra, luce e buio: è la natura, è la vita.