Corriere della Sera - La Lettura
Il fuoco di Dagerman arde con una poesia al giorno
«Breve è la vita di tutto quel che arde... Mai però si spegne la nostalgia della luce...». Come non leggere una premonizione nei versi che Stig Dagerman scriveva a neanche trent’anni? Ne aveva 29 quando con queste parole cantava la bellezza segreta dei fiori serotini, la velocità con cui svanisce la luce nei giardini. Era il 1952 e appena due anni dopo, trentunenne, avrebbe compiuto il gesto irreparabile: in auto, chiuso in un garage, con il gas di scarico che riempiva l’abitacolo soffocandolo. «La vita è troppo breve... La vita è troppo lunga...», cantava pochi anni prima, nel ’48, assetato di purezza e autenticità, della pulizia «della neve mai caduta» e delle marine vastità.
Le sue parole, poetate, cantabili, citate dai componimenti inediti che proponiamo in questa pagina, raccolgono e trattengono nella densa essenzialità del linguaggio poetico le tensioni, le pressioni, gli slanci che vibrano nella sua opera ed esistenza folgoranti. Fu il giovane genio svedese, l’enfant prodige che, a poco più di vent’anni, si impose come una star sulle scene letterarie degli anni Quaranta, l’intellettuale engagé, attivo nei movimenti anarchico-sindacalisti, nei movimenti operai, nei movimenti per la pace, ma impegnato, come sapeva fin troppo bene, in una «politica dell’impossibile». Talento vulcanico, esplosivo, travolgente, capace di ultimare un romanzo in quattro settimane di passione quanto afflitto da blocchi dell’ispirazione, dal panico della pagina bianca, dall’horror vacui, dall’ansia di prestazione.
Nato nel ’23 da madre centralinista e padre operaio, abbandonato in tenera età dai genitori e cresciuto dai nonni nelle campagne vicino a Uppsala, era stato sposato in prime nozze a una profuga tedesca, Annemarie Götze, il cui padre, antinazista fuggito con la famiglia dalla Germania a Barcellona e poi in Norvegia prima di approdare alla neutrale Svezia, lo aveva incoraggiato a credere nell’esperimento libertario catalano. In seconde nozze si era unito alla bellissima attrice bergmaniana Anita Björk: visse momenti di grandissima visibilità e di grande solitudine, provò entusiasmi ardenti, elevate aspirazioni quanto delusioni cocenti e un insaziabile «bisogno di consolazione».
La sua produttività letteraria si espresse e concluse nel giro di 4 anni: dall’esordio del 1945 con il romanzo Il serpente che fu acclamato come un bestseller, al 1949 in cui uscì il suo quarto e ultimo romanzo, Bröllopsbesvär, tradotto in inglese come Wedding Worries (Preoccupazioni matrimoniali), in tedesco come Schwedische Hochzeitsnacht (Notte di nozze svedese), con una prefazione di Per Olov Enquist, e ancora mai pubblicato in Italia. Se si aggiunge che il suo Serpente, un capolavoro, è uscito nel nostro Paese per la prima volta solo l’anno scorso e che il secondo romanzo, simbolico, insopportabilmente crudele, L’isola dei condannati, pubblicato in Svezia nel ’46, tradotto meritoriamente dalla casa editrice napoletana Guida nell’85, è fuori commercio da decenni, si dà la misura della sfidante immensità di questo autore.
Oltre ai testi narrativi — accanto ai titoli già citati va ricordato il romanzo Bambino bruciato, del 1948 (Iperborea, 1994) e la raccolta di racconti I giochi della notte (1947; Iperborea 1996) — Dagerman scrisse commedie teatrali, sceneggiature cinematografiche, reportage che è improprio e riduttivo definire giornalistici, se si pensa soprattutto a quel documento di dolorosa umanità che è Autunno tedesco (1947, Iperborea 2018) le cronache dalla Germania distrutta dopo il secondo conflitto mondiale. Ma ampia e significativa è l’opera postuma e inedita. Di suoi «frammenti, racconti, saggi, poesie», si compongono i volumi — preziosi per accostarsi all’animo di questo scrittore— Perché i bambini devono ubbidire? (2013), La politica dell’impossibile (2016), Il viaggiatore (1991), da cui un racconto, Ho remato per un Lord, è divenuto la bellissima graphic novel illustrata da Davide Previati (Coconino, 2021). La sezione «poesie» in questi testi è sempre minima, limitata ai quattro o cinque componimenti in verso libero in parte riportati anche in appendice a quel Il nostro bisogno di consolazione che, scritto nel ’52, uscito postumo nel ’55, tradotto in Italia nel ’91, sarà letto al festival I Boreali come una testimonianza spirituale.
Tuttavia è grossa, ingombrante — e scomoda soprattutto per l’autore, che da tanta sensibilità rimase schiacciato — la vena lirica che percorre l’intera opera di Stig Dagerman. La riconosce chi legge la sua prosa: la trova nelle metafore, nelle espressioni immaginifiche, nel virtuosismo mai gratuito. Sui giornali con cui collaborava, lo «Storm» (Assalto), da adolescente libertario, e poi l’«Arbetaren» (L’operaio), da caporedattore culturale, aveva pubblicato componimenti già prima del debutto in narrativa e ne avrebbe scritti fino all’ultimo, uno al giorno, i cosiddetti Dagsedlar, le filastrocche satiriche di denuncia politica.
Un libro di sola lirica, dove — ci ha anticipato il suo curatore e traduttore, Fulvio Ferrari — coesisteranno i due filoni delle poesie «pure» e di quelle di denuncia uscirà il prossimo autunno da Iperborea. Un’urgenza di fondo — urgenza di introspezione da una parte e di impegno sociale dall’altra — accomuna la genesi dei testi che saranno selezionati da due diversi volumi dell’opera completa di Dagerman. Si proporrà anche una nuova traduzione, in rima giocosa e stridente con il durissimo contenuto del testo, della poesia che Dagerman scrisse nel suo ultimo giorno di vita, il 5 novembre 1954, Attenti al cane: sferzante commento in versi alle dichiarazioni dei responsabili della Previdenza sociale scandalizzati del fatto che chi viveva di sussidi tenesse pure un cane, uscito sull’«Arbetaren» il giorno dopo la sua morte. Chissà se l’edizione italiana delle sue poesie conterrà anche i versi che sono incisi sulla sua lapide a Älvkareby, nel paesino di campagna dov’era cresciuto con i nonni: «Morire è viaggiare/ per un tempo assai breve/ dal ramo di un albero/ alla solida terra».