Corriere della Sera - La Lettura
Una cena da cani E il menu? La vita
Un romanzo composto da sei racconti che coprono tre generazioni di una stessa famiglia: Emidio Clementi coglie e restituisce i pensieri e le parole, le stravaganze e le ossessioni, gli spaesamenti e lo scollamento rispetto alla società
«Tra ciò che dico e ciò che gli altri capiscono vedo aprirsi una crepa e le parole caderci dentro, come una fila di macchine»
In una favola di Fedro c’è una volpe che invita una cicogna a mangiare in casa propria. La cortesia però nasconde un’insidia. La cicogna infatti si ritrova una tavola imbandita con un piatto di minestra che il suo lungo becco può soltanto rimestare. L’invito è contraccambiato in modo altrettanto perfido. A casa della cicogna il cibo è servito sminuzzato sul fondo di una damigiana che lascia alla volpe il vano piacere di leccare il vetro. Così la cicogna può ingozzarsi divertita: più che la cena, ha servito una vendetta. Ciascuno deve sopportare di buon animo l’esempio che ha dato.
Qualcosa di simile avviene in Gli anni di Bruno, il nuovo romanzo di Emidio Clementi, quando uno dei protagonisti è invitato a cena da un conoscente fuori di testa. La cena è apparecchiata, sì, ma con le scodelle dei cani al posto dei piatti. È solo un episodio, ma il senso di straniamento è questo e percorre tutto il romanzo, accompagna i personaggi, affacciandosi nelle loro esistenze. Straniamento che sembra essere parte dei cromosomi che i personaggi si tramandano, dal momento che il tempo del romanzo è scandito da sei racconti che coprono tre generazioni di familiari.
Proprio come una cena nella scodella del cane, nemmeno la vita è come dovrebbe essere. Nazzareno bambino non dovrebbe pretendere di bere esclusivamente dai bicchieri che sono stati riempiti dalla madre. Non dovrebbe annuire alle persone, una volta cresciuto, con l’unica speranza di togliersele di torno. Non dovrebbe nemmeno provare pena per quel disgraziato truffatore da cui si lascia rifilare un’orrenda giacca di taglio antiquato, cedendo a un’assurda e penosa empatia. Anche nella vita coniugale con Sonia e nei rapporti con gli altri — i due vivono in una pacifica cittadina costiera — la sensazione è sempre questa. Un piatto in cui il cibo non si riesce a raggiungere o dove, se è a portata di mano, qualcosa non torna.
I pensieri di Nazzareno cominciano a diventare inquietudini quando il tempo fa di lui un padre. Il figlio Bruno è troppo introverso. Una semplice capriola nell’ora di ginnastica diventa un’impresa che imbarazza tutti: «Mi fa paura». E allora a Bruno non resta che il proprio mondo, la propria casa, la propria camera. Qui rivive le scene della giornata oppure ne inventa di nuove. Le voci di Bruno impersonano la maestra, un compagno di classe e Bruno stesso. Dall’altra parte del muro Nazzareno ascolta il teatrino, rabbrividendo al ricordo di suo padre Ezio, quando la ditta di famiglia stava fallendo e lui metteva in scena una recita privata del tutto simile a quella del nipote: «Cosa avrei potuto fare di più? Nulla, Ezio, nulla. Devi toglierti dalla testa l’idea che la colpa di tutto sia sempre la tua!». A tutto questo fanno da contrappeso perfetto scene come quella in cui Nazzareno e Bruno si tengono per mano, stringendo la presa a vicenda, ripetutamente, come se comunicassero in codice Morse.
Codice che non esiste, però è proprio quello il loro linguaggio, cioè la reciproca consapevolezza di essere legati per sempre e di non saperselo dire esplicitamente.
Se gli animali di Fedro raccontano degli esseri umani, i bambini raccontano di quegli esseri umani che sono gli adulti. Tutti si rispecchiano in Bruno. Come una calamita che ha raccolto dei piccoli insignificanti oggetti di ferro che una volta uniti formano una massa, anche Bruno ha raccolto la limatura di follia sparsa nella sua famiglia e ne ha composto una figura, sé stesso. «Tra quello che dico e quello che gli altri capiscono vedo aprirsi una crepa e le parole caderci dentro, come una fila di macchine durante una scossa di terremoto». Più Bruno cresce e più il linguaggio perde la sua funzione. In compenso abbondano i tic per esorcizzare le paure: toccare quattro volte il naso con l’indice e poi con il naso la parete più vicina. Dal tentativo di avvicinare una ragazza per quello che potrebbe essere il primo bacio, ne vien fuori un’insostenibile confessione di stranezza sussurrata all’orecchio. Finché, ormai adolescente, alcuni furtarelli di nessun conto aprono alla possibilità che si imprima su di lui il sigillo dello psicopatico.
Viene da chiedersi come intendere il titolo del romanzo. In che senso gli anni sono di Bruno? Sono gli anni in cui è giunto per lui il momento di vivere, in cui è giunto finalmente il suo turno, oppure si tratta di un tempo in cui i nodi di tutti gli altri vengono al pettine? È la vita di Bruno o quella di chi lo ha preceduto? Nelle cose che fa e che dice, c’è più Bruno o ci sono il nonno Ezio, la nonna, i genitori Nazzareno e Sonia? Ciascuno deve sopportare di buon animo l’esempio che ha dato, dice la cicogna alla volpe. Ora sono gli adulti a doverlo dire a sé stessi, di fronte allo specchio dell’ultimo nato in famiglia. Adulti. Una parola ricorrente in questo romanzo, che ci ricorda anche Claudio Piersanti e una sua celebre raccolta di racconti, specialmente quando la madre di Nazzareno rievoca il modo in cui lei e il figlio erano un tempo uniti — «l’amore degli adulti è meno indulgente di quello di una madre» — da quell’ossessione che Nazzareno avrebbe poi replicato con Bruno. È una parola che a rigor di logica dovrebbe trovare un senso soltanto in opposizione a un’altra età della vita come lo sono gli anni di Bruno, ma che poi finisce per accomunare tutti negli smarrimenti del destino.