Corriere della Sera - La Lettura
Aprite gli occhi, i segni vi parlano
La riproposta di un volume di Oliver Sacks — neurologo e scrittore dagli interessi sconfinati — spinge a riflettere sulla condizione delle persone non udenti, sulle discriminazioni subite e sulla ricchezza delle loro strategie comunicative
Ascorrere l’opera completa di Oliver Sacks — neurologo, scrittore, accademico, appassionato di musica, di storia naturale, di chimica — si rimane colpiti dall’ardore riservato a ogni ambito d’interesse. Anzi, se ne esce convinti che la sua esistenza sia stata attraversata da molte vite, tutte intense.
Nato a Londra nel 1933, ultimo di 4 fratelli, fu indirizzato allo studio della medicina (ma avrebbe voluto studiare chimica) da quei due influenti medici ebraici che erano i genitori. Il giorno del suo ventisettesimo compleanno, Sacks lasciò l’Inghilterra — è lui stesso a raccontarlo nell’autobiografia In movimento — e tra le ragioni ve ne erano due più urgenti: la sua omosessualità, che la famiglia rifiutò senza mezzi termini, e il bisogno di allontanarsi dal tragico fratello Micheal, affetto da schizofrenia. Riparò negli Stati Uniti — il Nuovo Mondo, scrive — e qui cominciò a esplorare i disturbi del cervello e della mente, a partire proprio dalla schizofrenia che lo riconduceva all’amato fratello da cui pure aveva dovuto distaccarsi.
Anche la sua carriera clinica cominciò con un allontanamento. «Sacks, sei un pericolo in laboratorio. Perché non vai a visitare i pazienti — gli dissero — che fai meno danni?». Il giovane e goffo dottor Sacks – magistralmente interpretato nel 1990 da Robin Williams in Risvegli, il film di Penny Marshall che ottenne tre candidature agli Oscar — fu mandato a visitare i pazienti. E dai suoi pazienti non si allontanò mai. Seguirono sei decenni di pratica clinica e studio dei disturbi neurologici, in un tempo in cui la ricerca si limitava allo studio delle cellule nervose e dei riflessi spinali, trascurando le improvvise trasparenze dei processi, i risvolti psicologici, la capacità del sistema nervoso di riorganizzarsi; sei decenni di scrittura su quei disturbi, sulle voragini invisibili, sui pezzi perduti del sé, rendendo accessibile e a tratti letterario l’oscuro campo della neuropsichiatria.
Vedere voci — pubblicato in Italia per la prima volta nel 1990 e ora mandato in stampa in una nuova edizione ampliata, sempre da Adelphi che è l’editore italiano di tutte le opere di Sacks — si discosta dai precedenti scritti. Con grande accuratezza, infatti, l’autore affronta uno specifico mai oggetto dei suoi studi: la sordità e il mondo dei sordi, generalmente ignorato. È il suo «viaggio» da udente tra le esclusioni, le storiche discriminazioni, ma anche le risorse profonde di una comunità che abita il silenzio e che, attraverso i segni, scopre e assegna significati. «Tre anni fa non sapevo nulla della condizione dei sordi e non avrei mai immaginato che essa potesse far luce su tanti ambiti diversi, soprattutto in quello del linguaggio. Poi, e fu una scoperta sorprendente, venni a conoscenza della loro storia e delle straordinarie sfide (linguistiche) che essi devono affrontare; scoprii anche, con meraviglia, che esisteva un linguaggio completamente visivo, i Segni, che si esprimeva in una modalità diversa dalla mia lingua, il parlato».
Il libro è diviso in tre parti, introdotte da una Prefazione nella quale Sacks traccia anche la storia dei sordi in Italia e della scuola di via Nomentana a Roma. L’autore dà conto, nelle varie sezioni del libro, dei violenti tentativi di costringere i sordi a non usare i segni, a partire dal Congresso internazionale degli educatori dei sordi, tenutosi a Milano nel 1880 e dal quale furono esclusi gli insegnanti sordi. Le conseguenze furono devastanti, soprattutto per i bambini nati sordi per i quali quella dei segni era la lingua nativa, il naturale modo di esprimersi. Tutte le scuole europee licenziarono gli insegnanti sordi, abbandonarono la lingua dei segni e divennero esclusivamente «oraliste»: l’insegnamento doveva essere impartito in lingua orale in virtù della sua «incontestabile superiorità rispetto alla lingua dei segni».
Sacks, al contrario, attingendo a vaste e organiche ricerche scientifiche che la legittimano, mostra come la lingua dei segni non sia già un modesto surrogato della voce ma una complessa dinamica di movimenti e di pause paragonabile a quella della musica o del discorso parlato.
Ci spiega inoltre che, a livello neurologico, quello dei segni è un linguaggio vero e proprio, e come tale viene trattato dal cervello. Ma la questione fondamentale era — diciamo pure: è — sempre la stessa: come si finisce a trascurare le persone e i loro vissuti, come si fa ignorare la domanda di riconoscimento che esse portano con sé, insieme al legittimo desiderio di andare oltre la pura sopravvivenza?
Nel 1988, alla Gallaudet University — l’ateneo americano per sordi — gli studenti avviarono una protesta diventata il simbolo della loro emancipazione. Con lo slogan Deaf President Now essi chiedevano, e infine ottennero, la nomina di un presidente sordo. Sacks fu al loro fianco nei giorni delle rivendicazioni: non più invisibili, quei ragazzi stavano respingendo la dimensione di minorità in cui da secoli quelli come loro erano stati confinati. Del resto, solo due anni prima il film Figli di un Dio minore, diretto da Randa Haines e interpretato da Marlee Matlin, sordomuta dall’infanzia, aveva fatto «scoprire» al mondo una realtà altrimenti non vista.
Nelle prime pagine di Vedere voci si cita spesso Deafness, l’autobiografia del poeta David Wright, sordo anch’egli ma non dalla nascita. Scrive Wright: «Sulla sordità non è stato scritto molto da parte dei sordi. Ciò malgrado, tenuto conto del fatto che io sono diventato sordo dopo aver imparato a parlare... sono in una posizione migliore per immaginare cosa significhi nascere in un mondo di silenzio».
Di recente è stato pubblicato in Italia un romanzo che andrebbe letto anche soltanto per capire di che cosa parliamo quando ci riferiamo al silenzio di cui scriveva Wright. S’intitola Il silenzio del mondo e lo ha scritto Tommaso Avati che, dall’interno di una dimensione ai più sconosciuta, ci mostra come il segnare diventi anche altro: risorsa primigenia per tre generazioni di donne nate sorde, i segni diventano ciò che salva quando tutto si fa irragionevole. Per ragioni affini, andrebbe visto lo spettacolo Deafman Glance che Bob Wilson mandò in scena nel 1970. Lo spettacolo era un prolungato silenzio (di circa 4 ore) con attori sordomuti. Al tempo, fu una rivelazione: il silenzio d’improvviso diventava immagine, anzi presenza; quel silenzio messo in scena era qualcosa di evidente. Esattamente come avviene con i segni.
Tornando a Sacks, Vedere voci si conclude con una serie di punti interrogativi. «Ci sarà una trasformazione delle coscienze destinata a durare?», si chiede Sacks. E: «Davvero i sordi che vivono alla Gallaudet e la comunità dei sordi in generale riusciranno a trovare le opportunità che cercano? E noi, gli udenti, gliele consentiremo? Permetteremo loro di essere sé stessi, una cultura unica in seno alla nostra, e al tempo stesso li lasceremo partecipare, alla pari, a qualsiasi sfera di attività?».
Era il 1989. A distanza di 33 anni sono domande tuttora aperte.