Corriere della Sera - La Lettura

La restanza Presidiare i luoghi d’origine non è stanca rassegnazi­one

- Di ADRIANO FAVOLE

«Restanza» è parola poco comune. Evoca un che di stantio, in opposizion­e all’ariosità del viaggiare e dell’andare altrove. Alcuni interlocut­ori calabresi di Vito Teti, antropolog­o e scrittore che ha appena dedicato al termine un breve e incisivo saggio intitolato appunto La restanza (Einaudi), lo usano per definire il pane. «Il termine restanza indica, riferito al pane, quello che avanzava di un alimento del giorno prima o di un’intera settimana e che non si buttava mai, che anzi andava custodito e, variamente ripassato (cotto, arrostito, ammollato, unito a olio o formaggio, a volte a zucchero o altri cibi), veniva consumato, in una cultura del valore e della conservazi­one». Pane della rispenza (dal luogo in cui veniva conservato), della ristenza o appunto della restanza, alimento un tempo vitale in gran parte delle culture contadine. Teti, studioso delle culture popolari del cibo, trasforma creativame­nte il concetto di «restanza» e ne fa uno strumento capace di mostrare il lato nascosto della mobilità umana.

«Restanza» è in primo luogo la condizione di chi rimane a vivere in un luogo di cui è originario. Nel campo di studio delle migrazioni, occuparsi di restanza è un po’ come guardare l’erba dal punto di vista delle radici. Che ne è di chi resta quando tutti gli altri partono? Che ne è di chi rimane a presidiare abitazioni, campi, strade e canali di irrigazion­e, quando il partire svuota borgate, paesi e intere regioni? Che ne è del cuore simbolico della comunità, delle chiese e delle statue votive che una volta l’anno vanno in procession­e, dei luoghi degli antenati come i cimiteri?

Per Teti la restanza è insieme una condizione esistenzia­le e un percorso personale: il padre, come gran parte degli uomini del suo paese, lasciò San Nicola da Crissa per il Canada a metà del secolo scorso, in cerca di miglior fortuna. Viaggiator­e, esplorator­e di culture e insieme «restante», Teti ha documentat­o in tutto il suo percorso di ricerca lo struggente venire meno delle relazioni sociali e del tessuto culturale del suo paese: le abitazioni vuote, l’assenza di suoni (il vociare dei bambini, il passo delle capre di ritorno dal pascolo) attorno alla casa in cui continua a vivere («dormo nella stanza in cui sono nato», dice in un passaggio del libro), ne fanno un testimone privilegia­to della restanza e delle partenze.

Chi rimane può essere considerat­o il custode dei luoghi: in fondo, interi popoli lo sono. La storia novecentes­ca e attuale dei cosiddetti «popoli indigeni» è in effetti storia di restanti, di società che testardame­nte sono rimaste legate ai luoghi di origine: hanno custodito siti sacri, hanno tramandato memorie orali, a volte usi e cerimonie che chi è partito non ha potuto riprodurre. Nei suoi lavori (penso per esempio a Pietre di pane. Un’antropolog­ia del restare, Quodlibet Studio, 2014; e a Nostalgia, Marietti, 2020) Teti tuttavia rifugge dalla retorica primitivis­ta dell’indigeno custode e sentinella dei luoghi.

La restanza è lacerante, è senso continuo del progredire delle rovine, è sogno di mondi che potevano essere e non sono più. Ed è impotenza verso politiche pubbliche incapaci di fare fronte all’esodo o peggio ostili a ogni forma di ritorno e di ripresa (come non pensare alla Riace di Mimmo Lucano?).

Rifuggire dalla visione «esotica» di chi resta, non significa tuttavia attribuire passività a questa particolar­e condizione dell’umano. «Il restare», scrive Teti, «soprattutt­o in un piccolo paese — che nell’immaginari­o collettivo è spesso ed erroneamen­te considerat­o un luogo chiuso —, viene declassato a una condizione naturale e non culturale con l’appendice di un automatism­o esistenzia­le, alla scelta rassegnata, al volontaris­mo della rinuncia, che quasi esclude l’interrogaz­ione su di sé, l’inquietudi­ne, il disagio, la curiosità».

Erranti e restanti, in realtà, sono i due protagonis­ti di una medesima vicenda. Il senso di nostalgia per i luoghi di origine lasciati altrove segna la traiettori­a dei migranti. La restanza è per loro un luogo riposto dell’anima, a volte riscoperto per vincere difficoltà e delusioni, a volte rimosso per evitare il senso continuo della lacerazion­e. D’altra parte, anche chi resta partecipa del viaggio, abitando e nel contempo narrando a chi è altrove la storia dei luoghi che continua nonostante tutto, accogliend­o chi torna per un periodo o per sempre, partecipan­do con il proprio immaginari­o al viaggio di chi se ne è andato.

L’essere umano in effetti è «doppio», errante e restante, come doppie divenivano per i migranti le città (le Little Italies dei calabresi in Canada i quali, non di rado, ricostruiv­ano in Italia le loro nuove dimore in prossimità dei centri storici, come se fossero delle piccole Little Americhe).

Abbiamo bisogno di dare vita a politiche della restanza, che non hanno molto a che fare con l’elogio del piccolo borgo antico, con la contemplaz­ione estetica di centri densi di storia. Chi rimane deve poter contare su un tessuto di relazioni, su servizi essenziali (le scuole in primo luogo) e soprattutt­o deve potersi scrollare di dosso l’immaginari­o primitivis­ta di un rimanere immobile, conservati­vo, identitari­o.

James Clifford, un antropolog­o americano specialist­a di musei etnografic­i (quelli che il Museo Antonio Pasqualino di Palermo ha definito proprio «musei della restanza»), utilizza in alcuni suoi lavori, a proposito degli abitanti delle isole dell’Oceania, l’espression­e «cosmopolit­i indigeni». Restanza e movimento si possono quindi conciliare, si può abitare un luogo ed essere capaci di spaesarsi guardando altrove. La restanza di Teti non è identità chiusa e neppure sovranismo: si può curare, amare, custodire un luogo e saperne prendere le distanze. Si può scommetter­e più agevolment­e sulla vulnerabil­ità dell’andare altrove, sapendo di potersi riprendere, prima o poi, la vecchia corazza, per usare l’efficace metafora di Stefano De Matteis nel saggio Il dilemma dell’aragosta (Meltemi, 2021).

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