Corriere della Sera - La Lettura
La restanza Presidiare i luoghi d’origine non è stanca rassegnazione
«Restanza» è parola poco comune. Evoca un che di stantio, in opposizione all’ariosità del viaggiare e dell’andare altrove. Alcuni interlocutori calabresi di Vito Teti, antropologo e scrittore che ha appena dedicato al termine un breve e incisivo saggio intitolato appunto La restanza (Einaudi), lo usano per definire il pane. «Il termine restanza indica, riferito al pane, quello che avanzava di un alimento del giorno prima o di un’intera settimana e che non si buttava mai, che anzi andava custodito e, variamente ripassato (cotto, arrostito, ammollato, unito a olio o formaggio, a volte a zucchero o altri cibi), veniva consumato, in una cultura del valore e della conservazione». Pane della rispenza (dal luogo in cui veniva conservato), della ristenza o appunto della restanza, alimento un tempo vitale in gran parte delle culture contadine. Teti, studioso delle culture popolari del cibo, trasforma creativamente il concetto di «restanza» e ne fa uno strumento capace di mostrare il lato nascosto della mobilità umana.
«Restanza» è in primo luogo la condizione di chi rimane a vivere in un luogo di cui è originario. Nel campo di studio delle migrazioni, occuparsi di restanza è un po’ come guardare l’erba dal punto di vista delle radici. Che ne è di chi resta quando tutti gli altri partono? Che ne è di chi rimane a presidiare abitazioni, campi, strade e canali di irrigazione, quando il partire svuota borgate, paesi e intere regioni? Che ne è del cuore simbolico della comunità, delle chiese e delle statue votive che una volta l’anno vanno in processione, dei luoghi degli antenati come i cimiteri?
Per Teti la restanza è insieme una condizione esistenziale e un percorso personale: il padre, come gran parte degli uomini del suo paese, lasciò San Nicola da Crissa per il Canada a metà del secolo scorso, in cerca di miglior fortuna. Viaggiatore, esploratore di culture e insieme «restante», Teti ha documentato in tutto il suo percorso di ricerca lo struggente venire meno delle relazioni sociali e del tessuto culturale del suo paese: le abitazioni vuote, l’assenza di suoni (il vociare dei bambini, il passo delle capre di ritorno dal pascolo) attorno alla casa in cui continua a vivere («dormo nella stanza in cui sono nato», dice in un passaggio del libro), ne fanno un testimone privilegiato della restanza e delle partenze.
Chi rimane può essere considerato il custode dei luoghi: in fondo, interi popoli lo sono. La storia novecentesca e attuale dei cosiddetti «popoli indigeni» è in effetti storia di restanti, di società che testardamente sono rimaste legate ai luoghi di origine: hanno custodito siti sacri, hanno tramandato memorie orali, a volte usi e cerimonie che chi è partito non ha potuto riprodurre. Nei suoi lavori (penso per esempio a Pietre di pane. Un’antropologia del restare, Quodlibet Studio, 2014; e a Nostalgia, Marietti, 2020) Teti tuttavia rifugge dalla retorica primitivista dell’indigeno custode e sentinella dei luoghi.
La restanza è lacerante, è senso continuo del progredire delle rovine, è sogno di mondi che potevano essere e non sono più. Ed è impotenza verso politiche pubbliche incapaci di fare fronte all’esodo o peggio ostili a ogni forma di ritorno e di ripresa (come non pensare alla Riace di Mimmo Lucano?).
Rifuggire dalla visione «esotica» di chi resta, non significa tuttavia attribuire passività a questa particolare condizione dell’umano. «Il restare», scrive Teti, «soprattutto in un piccolo paese — che nell’immaginario collettivo è spesso ed erroneamente considerato un luogo chiuso —, viene declassato a una condizione naturale e non culturale con l’appendice di un automatismo esistenziale, alla scelta rassegnata, al volontarismo della rinuncia, che quasi esclude l’interrogazione su di sé, l’inquietudine, il disagio, la curiosità».
Erranti e restanti, in realtà, sono i due protagonisti di una medesima vicenda. Il senso di nostalgia per i luoghi di origine lasciati altrove segna la traiettoria dei migranti. La restanza è per loro un luogo riposto dell’anima, a volte riscoperto per vincere difficoltà e delusioni, a volte rimosso per evitare il senso continuo della lacerazione. D’altra parte, anche chi resta partecipa del viaggio, abitando e nel contempo narrando a chi è altrove la storia dei luoghi che continua nonostante tutto, accogliendo chi torna per un periodo o per sempre, partecipando con il proprio immaginario al viaggio di chi se ne è andato.
L’essere umano in effetti è «doppio», errante e restante, come doppie divenivano per i migranti le città (le Little Italies dei calabresi in Canada i quali, non di rado, ricostruivano in Italia le loro nuove dimore in prossimità dei centri storici, come se fossero delle piccole Little Americhe).
Abbiamo bisogno di dare vita a politiche della restanza, che non hanno molto a che fare con l’elogio del piccolo borgo antico, con la contemplazione estetica di centri densi di storia. Chi rimane deve poter contare su un tessuto di relazioni, su servizi essenziali (le scuole in primo luogo) e soprattutto deve potersi scrollare di dosso l’immaginario primitivista di un rimanere immobile, conservativo, identitario.
James Clifford, un antropologo americano specialista di musei etnografici (quelli che il Museo Antonio Pasqualino di Palermo ha definito proprio «musei della restanza»), utilizza in alcuni suoi lavori, a proposito degli abitanti delle isole dell’Oceania, l’espressione «cosmopoliti indigeni». Restanza e movimento si possono quindi conciliare, si può abitare un luogo ed essere capaci di spaesarsi guardando altrove. La restanza di Teti non è identità chiusa e neppure sovranismo: si può curare, amare, custodire un luogo e saperne prendere le distanze. Si può scommettere più agevolmente sulla vulnerabilità dell’andare altrove, sapendo di potersi riprendere, prima o poi, la vecchia corazza, per usare l’efficace metafora di Stefano De Matteis nel saggio Il dilemma dell’aragosta (Meltemi, 2021).