Corriere della Sera - La Lettura
Ho ritratto la Germania La nuova Europa è qui
Cinquanta totem di cemento, due fotografie per ogni blocco: in Potsdamer Platz, luogo simbolo di Berlino, ex terra di nessuno dei fantasmi del Novecento, Oliviero Toscani ha installato i volti del «Paese più multiculturale del continente»
Da domani mattina, 25 aprile, sulla Potsdamer Platz a Berlino ci saranno i tedeschi. Non tutti naturalmente. Ma cento di loro, che Oliviero Toscani ha fotografato per il suo nuovo progetto. Nel luogo più emblematico della città riunificata, l’ex terra di nessuno dove per mezzo secolo si diedero appuntamento tutti i fantasmi del Novecento, l’artista italiano ha disseminato 50 blocchi di cemento, su ognuno dei quali sono stampate due foto di 2 metri per 3. «Cento ritratti come dei totem, in mezzo ai quali le persone cammineranno sentendosi guardate», dice Toscani a «la Lettura».
Quella che si apre nel cuore antico e nuovo di Berlino è la tappa conclusiva di un viaggio iniziato un anno fa e culminato in dicembre con la pubblicazione del volume Die Deutschen des XXI. Jahrhunderts, edito da Generali e da studioZ del gruppo «Die Zeit», straordinaria galleria di centinaia di ritratti fotografici realizzati da Toscani in Germania: «È molte cose: un ritratto, uno studio di ricerca fotografica, un’opera d’arte, un progetto culturale», spiega Giovanni Liverani, capo di Generali Deutschland e grande sostenitore dell’iniziativa.
«Faccio da anni questo lavoro sulla razza umana e giro per il mondo a fotografare gente, ho 80 mila ritratti nel mio archivio — racconta Oliviero Toscani, che lo scorso 28 febbraio ha compiuto 80 anni —. Mi sono reso conto che la reazione di ognuno quando si parla dei tedeschi è sempre motivata da qualche stereotipo. Tutti arricciano un po’ il naso: “Sono fatti così e così, parlano una lingua dura”, che in realtà pochi conoscono. Io li conosco bene, ho avuto amici tedeschi sin dagli anni Cinquanta, i primi li conobbi a Londra. Sono cresciuto con alcuni di loro e li ho sempre trovati molto simpatici. E allora mi sono chiesto il perché di questo pregiudizio su un Paese e un popolo in realtà straordinari. Così mi è venuta l’idea di un libro che, come paesaggio, avesse il volto dei tedeschi moderni, quelli reali, del presente e del futuro, cioè l’analisi di un Paese fatta da un fotografo. L’ho proposto a Liverani, che è una persona molto sensibile a questi temi. E siamo partiti. Un anno fa sono venuto qui con una troupe di collaboratori, andando in giro per strada a Monaco e Berlino, fermando le persone e chiedendo se potessimo far loro un ritratto. Devo dire che solo pochi rispondevano di no. Comunque, erano tutti molti gentili. Sono stato anche in un’associazione nella quale si ritrovano i dipendenti della Bmw, dove lavorano persone di 75 etnie. Tutti quelli che ho fotografato hanno la nazionalità tedesca».
Ma c’era un criterio nella scelta dei soggetti?
«Come artista ho fatto le mie scelte. Paul Klee quando faceva le sue composizioni sceglieva prima i colori. Fai una selezione che pensi funzionale a fare la cosa più interessante. Nessuna posa, nessuna preparazione, tipo cambiarsi d’abito o pettinarsi, tantomeno truccarsi. Voglio persone normali prese in un momento della loro vita quotidiana. Non ho fotografato bambini, ma solo persone adulte che lavorano».
Nelle sue foto sul genere umano toglie ogni contesto. In che modo viene fuori il Paese?
«Sì, è vero, tolgo tutto il possibile per principio. Come diceva Alfred Loos, “ogni ornamento è un crimine”. Voglio fotografare l’essenzialità attraverso lo sguardo degli occhi ancora più della morfologia del viso. Chiedo loro solo di guardarmi. Sono loro che mi fotografano. Insieme fanno un mosaico della vita e del Paese. Ogni persona ne è una tessera. Quando fotografo tutte queste persone, mi ritrovo faccia a faccia con l’infinito, l’universo. Non si tratta di giudicare, ognuno a suo modo è perfetto. A me interessa il momento nel quale uno si chiede: cosa succede? Quello è l’attimo magico, prima di giudicare, nel quale sei ancora completamente aperto».
Il suo libro ha un illustre precedente: quasi un secolo fa August Sander fotografò i tedeschi nella sua celebre serie «Menschen des 20. Jahrhunderts». È stato una fonte di ispirazione?
«Sander è stato un pezzo della mia vita. Lo scoprii da studente alla scuola di Zurigo e da lì capii cos’era la fotografia, cosa significasse fotografare. L’ho anche incontrato nel 1962, due anni prima che morisse. Ma allora non era ancora Sander. La sua foto che preferisco è quella del muratore con i mattoni sulle spalle. Sander fotografava la condizione umana e rimane un grande maestro. La celebre foto dell’ufficiale delle SS è un documento storico eccezionale, in quel volto c’è tutto il nazismo».
Ha fatto lo stesso lavoro in Germania e in Italia. Quali differenze ha notato nella reazione delle persone?
«Ho scoperto — meglio: abbiamo scoperto, perché tutti, anche i miei collaboratori hanno avuto la stessa esperienza — una incredibile gentilezza in Germania, sono sempre stati tutti molto educati, pronti ad ascoltare. Mi ha molto impressionato questa qualità di umanità».
Qual è la Germania che emerge dalle sue foto?
«Un Paese multiculturale rivolto al futuro. Qui la multiculturalità sembra diversa dagli Stati Uniti. I tedeschi vecchi e nuovi sono tutti molto acculturati, parlano quasi tutti un buon inglese, sono più informati. Io credo che la Germania sia all’avanguardia nella sfida dell’integrazione. Certo, le sacche di razzismo ci sono sempre ma in modo non diverso da altri Paesi, Italia compresa. Credo che rimanga il Paese battistrada dell’Europa. La Germania ha sempre avuto una grande forza non solo economica ma anche culturale: la musica, la letteratura, la sua profondità. Ecco, credo che anche i nuovi tedeschi esprimano questa forza».
Cosa significa per lei fotografare?
«Tanti anni fa durante un viaggio nei Paesi arabi, nei quali non mi lasciavano fotografare, scoprii che per certe religioni fotografare una persona equivale a rubarle l’anima. Pensi che mestiere che faccio: ho la capacità di rubare l’anima. E questa cosa mi è sempre rimasta addosso. Un po’ è vero. C’è un flusso che devi sempre essere capace di ottenere quando fotografi qualcuno. Si esprime attraverso lo sguardo degli occhi che chi viene fotografato ti regala, è un segno di generosità umana. Se metti una persona contro un muro e cominci a fotografarla, sempre allo stesso modo, le foto non vengono tutte uguali. In alcune c’è il flusso, in altre no. Ma è vero anche quando parli con qualcuno».
Come vive questo tempo della guerra?
«Io sono nato nel 1942, sotto le bombe. E ora mi ritrovo a 80 anni a dover assistere di nuovo a una guerra. È desolante, incomprensibile. Sono un po’ imbarazzato di appartenere alla razza umana. Quando vedo queste immagini di morte, di distruzione, mi chiedo con chi abbiamo a che fare, dove sia finita la pietà umana. Non siamo ancora civili».
«Queste terre sono all’avanguardia nella sfida dell’integrazione. I nuovi tedeschi hanno anche una forza culturale»