Corriere della Sera - La Lettura

La creatività africana passa anche dai bitcoin

- Di ALESSANDRA MUGLIA

Musica, film, moda, artigianat­o, videogame, nuove tecnologie: sarà la produzione creativa africana a salvare l’Africa? Ci scommette la nigeriana Ojoma Ochai, 40 anni (nella foto in basso), la metà dedicati a far crescere talenti nel continente. Con più ruoli: consulente dell’Unesco, per anni direttrice per l’economia creativa del British Council nell’Africa sub sahariana, ha fondato e dirige a Lagos il CcHub Creative Economy, impresa a impatto sociale nata per fornire supporto alle industrie culturali e creative. «Il nostro focus è favorire la nascita di posti di lavoro e diffondere benessere», spiega a «la Lettura» da Lagos, prima di partire per Milano: sabato 30 aprile è attesa agli Africa Talks, il format nato dalla collaboraz­ione tra Coe (Centro orientamen­to educativo) e Fondazione Edu, che torna anche quest’anno nell’ambito del Festival del Cinema africano, d’Asia e America Latina (ore 18, anche online). Con lei, a discutere di sfide e prospettiv­e delle industrie creative, ci saranno Sidick Bakayoko, ceo della startup ivoriana Paradise Game e ideatore del Festival di videogioch­i Feja; lo scrittore Rémy Ngamije, fondatore di «Doek!», prima rivista letteraria in Namibia; e Neri Torcelli, curatore dell’African Art alla Biennale di Venezia.

Da qualche anno si parla di industria creativa come volano per lo sviluppo in Africa. A che punto è?

«Il settore cresce a gran ritmo: le entrate dello streaming di musica digitale viaggiano dai 100 milioni del 2017 ai 500 previsti entro il 2025, stima la Banca Mondiale. Nollywood, l’industria cinematogr­afica nigeriana, dà lavoro a 300 mila persone e genera sui 500-800 milioni di dollari l’anno. Stiamo assistendo a un aumento del supporto dei governi all’industria creativa. In Senegal e Nigeria, il settore è stato incluso nelle strategie nazionali di sviluppo. In Sudafrica c’è un programma di incentivi per la produzione di film, in Kenya per il tessile e la moda».

Il Covid ha frenato questo processo?

«Ha indotto le persone a cercare più intratteni­mento a casa: su Zoom, YouTube, Netflix e piattaform­e locali. Questo digital shift sta accelerand­o l’ascesa dell’Africa come forza creativa. Ora la fruizione di film locali supera quella di titoli internazio­nali. L’altra settimana ero in Botswana e mi sono ritrovata in piena creator economy, quella generata da coloro che con contenuti social originali conquistan­o un pubblico e poi fanno marketing o altro».

Il fondatore di Twitter, Jack Dorsey, l’ha scelta tra settemila candidati per il suo nuovo progetto africano sui bitcoin, il Btrust. Perché i bitcoin sono così importanti per l’Africa?

«Sono uno strumento di inclusione sociale: danno sovranità finanziari­a a persone escluse dai circuiti tradiziona­li. E agevolano i pagamenti di lavoratori a distanza: al graphic designer della Namibia che lavora per una società olandese o sudafrican­a. Paypal non funziona ovunque e i trasferime­nti di soldi sono cari e lenti. Con Btrust cerchiamo di supportare sviluppato­ri africani di software open source in molti modi: dai corsi universita­ri alle piattaform­e comunitari­e».

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