Corriere della Sera - La Lettura
Una Repubblica affondata nei cantieri
Zyber Curri era un manovale kosovaro quarantottenne quando perse la vita in un cantiere in provincia di Como precipitando in un dirupo. A distanza di oltre tre anni non è stato nemmeno possibile stabilire da quale azienda fosse stato chiamato. Un fantasma
Il 28 aprile è la Giornata per la sicurezza e la salute sul lavoro, due condizioni che in Italia sono troppo spesso disattese: in fabbrica, nei campi e nell’edilizia muoiono ogni giorno tre persone, uccise dall’assenza di misure di tutela e dalla carenza di controlli
Èla mattina del 12 dicembre 2018, sono passate da poco le 11.30. Il cantiere della centrale idroelettrica in Val Cavargna, in provincia di Como, è a 1.500 metri di altitudine, aggrappato a una pendenza che complica ogni movimento. Ed è lì che Zyber Curri, operaio kosovaro di 48 anni, sta posando delle tubature quando — forse a causa del ghiaccio — perde l’equilibrio e precipita per una ventina di metri in un dirupo roccioso. Per recuperare la salma è necessario l’intervento del soccorso alpino, si alzano in volo due elicotteri, uno da Brescia e uno da Sondrio. Ore di lavoro di uomini e mezzi, ma alla fine non rimane che constatare il decesso. Ma già a quel punto la vicenda comincia a essere costellata di buchi neri.
Il primo riguarda la comunicazione della tragedia ai familiari. Trascorrono infatti circa 10 ore prima che la notizia arrivi a Edolo, in Valcamonica, dove Curri si era trasferito con la moglie e i 4 figli vent’anni prima, quando il Kosovo era teatro di guerra. È un ex collega del muratore morto a raccontare quel che sa, perché nessuno di chi avrebbe dovuto sentirsene la responsabilità si è mai fatto sentire. Il silenzio dei datori di lavoro — che in un primo momento non hanno messo nemmeno le forze dell’ordine in condizione di risalire all’identità dell’uomo morto — rappresenta infatti il secondo buco nero di questa storia, quello più incredibile: perché a distanza di tre anni e mezzo da quell’infortunio mortale, è ancora aperto a Como — e diviso in due tronconi — il processo penale che dovrebbe stabilire per quale azienda stesse lavorando il kosovaro precipitato nel dirupo.
Dalla prima ricostruzione emerge che nel cantiere sono formalmente presenti diverse aziende. È normale, tra appalti e subappalti succede sempre che i lavori siano frazionati tra diverse società. Ma a rendere da subito strano il caso è che Curri sarebbe ufficialmente dipendente di una ditta che, invece, «è del tutto sconosciuta all’ambito del cantiere». Chi è dunque il datore di lavoro dell’operaio caduto? Apparentemente nessuno. La committente dei lavori dirotta le domande verso la ditta responsabile per la sicurezza, che a sua volta — dopo avere dichiarato il cantiere in regola — indica una terza azienda, proprietaria dell’auto che Curri aveva in uso e guidata da una persona che, secondo i familiari, agiva come responsabile del cantiere. Qualcuno si spinge persino a ipotizzare che l’uomo morto nel dirupo fosse «un escursionista». Casualmente titolare di un mosaico di contratti a termine per l’edilizia e casualmente a passeggio tra le montagne comasche, sebbene residente tra le montagne bresciane. Le perizie grafologiche, poi, hanno rivelato che le firme sui contratti non erano fatte da Zyber Curri, ma nel frattempo gli investigatori della procura di Como sono già consapevoli di trovarsi davanti a un rompicapo e a un muro di omertà. I soli a fornire informazioni utili sono i figli della vittima e i sindacalisti della Fillea Cgil. Comprese le foto che
Tanti liquidano la sicurezza come un mero costo e si rivolgono al mercato della formazione e a chi «vende» certificazioni
lo ritraggono al lavoro in quel cantiere, gli incontri e gli scambi di messaggi con i rappresentanti delle aziende che adesso dicono di non sapere niente di lui.
Una vicenda ai limiti dell’incredibile. Caso estremo? No. Nel mondo dell’edilizia italiana non è raro imbattersi in situazioni da cronaca nera. In diversi casi il cadavere di un operaio precipitato da un’impalcatura è stato spostato fino al ciglio di una strada per simulare goffamente un incidente stradale, «tanto chi viene a reclamare per quell’arabo clandestino» mai assunto da nessuno. I caporali trovano sempre grande spazio nella Babele dei subappalti. Però adesso il reclutamento delle braccia a basso costo non avviene più all’alba in certe piazze delle città: basta WhatsApp. E nel mondo del «nero» non sono contemplate tutele, formazione, diritti, orari, misure di sicurezza. Anche per questo, spesso, salta fuori che l’operaio morto in cantiere «era al suo primo giorno di lavoro». Neoassunto, anzi post-assunto, perché prima dei soccorsi bisogna avvertire i caporali e qualcuno da qualche parte farà spuntare una lettera di assunzione con chiaro riferimento a un «periodo di prova».
Così lievitano i numeri delle vittime del lavoro, al ritmo di 3 al giorno (la media comprende persino qualche decimale in più), pressoché immutato negli anni. Le statistiche ufficiali dicono che nel 2021 gli infortuni mortali sono stati 1.221 ma ci sono ancora casi che sfuggono al macabro conteggio. Ogni anno, poi, vengono denunciati oltre mezzo milione di infortuni (e ovviamente nei gironi del «nero» non si denuncia niente) e circa 50 mila malattie professionali. L’edilizia da sola offre il 15% del sacrificio umano italiano all’articolo 1 della Costituzione. Ma si muore in tutti i settori, dall’agricoltura alla chimica, dall’industria metalmeccanica a quella tessile. Precipitati, schiacciati, asfissiati, scempiati dai macchinari. Una strage a rate quotidiane dai costi umani ed economici inestimabili e che ha prosciugato anche parole e indignazione. All’indomani della strage della Thyssen-Krupp — 7 morti, operai arsi vivi il 6 dicembre 2006 — Torino si fermò, il grande corteo silenzioso dal quale provenivano soltanto i lamenti strazianti di un padre, attraversò una città spettrale, le serrande dei negozi si abbassavano, impiegati e casalinghe uscivano sui balconi per partecipare con atteggiamenti composti. Pochi giorni dopo che l’argon aveva asfissiato in una manciata di secondi 4 lavoratori della Lamina di Milano, il 16 gennaio 2018, la manifestazione sindacale era poco partecipata e circondata da auto clacsonanti e passanti infastiditi. E soprattutto: nei giorni successivi a entrambe le stragi, in Italia ci furono altre morti di lavoro, in più di un caso raccontate soltanto dalle cronache locali.
Per contrastare quest’inconsapevole ma letale attitudine all’assuefazione, l’Anmil (Associazione nazionale mutilati e invalidi del lavoro, fondata nel 1943 ma «purtroppo ancora necessaria») ha avviato un nuovo strumento: la Scuola della testimonianza. Una volta constatato che il racconto in prima persona di una vedova, di un orfano o di un sopravvissuto ha un impatto molto più profondo su chi ascolta, sia tra gli studenti sia tra i lavoratori, è stato organizzato un percorso strutturato per la formazione di nuovi narratori dell’insicurezza e della sicurezza sul lavoro. Persone che hanno vissuto il dramma di un infortunio in prima persona diventano così testimonial e formatori certificati per scuole e aziende, comprese diverse multinazionali. «Perché attingono al loro dramma — sottolinea il presidente dell’Anmil, Zoello Forni — energie di coinvolgimento di grande impatto, efficacia e forza comunicativa, capaci di agire come un vaccino nei confronti dei lavoratori e degli studenti».
Chiunque si occupi del tema, termina il proprio ragionamento con una riflessione: occorre creare la cultura della consapevolezza. Spesso, infatti, quando si ricostruisce la dinamica di un incidente, salta fuori l’errore, il gesto incauto, la condotta sbagliata della vittima stessa. Ma è dolosamente ingannevole astrarre quegli «errori» dal loro contesto. In altre parole: qualcuno ha spiegato davvero quali fossero i rischi potenziali sul lavoro a tutte le persone che non sono tornate a casa? La formazione dovrebbe proteggere (anche da sé stessi) tanto il neoassunto quanto il veterano. Se ne parla molto ma (quasi) ogni volta che muore un lavoratore risulta evidente che non aveva ricevuto adeguate istruzioni sull’ambiente in cui operava e su come avrebbe dovuto muoversi lì dentro. E non di rado, prima ancora della formazione, a mancare è addirittura la più elementare informazione.
Non c’è consapevolezza del rischio. E ci sono fragilità e clamorose carenze nell’apparato di controllo: poche centinaia di ispettori per sorvegliare centinaia di migliaia di aziende. Le associazioni imprenditoriali si sono impegnate in questa battaglia di civiltà, ma ancora troppi datori di lavoro liquidano la sicurezza come un mero costo e si rivolgono al fiorente mercato della formazione e a chi «vende» certificazioni senza perdite di tempo. E finché la prevenzione sarà intesa come un fastidioso balzello, continuerà il conteggio dei morti sul lavoro.