Corriere della Sera - La Lettura

La lingua del nemico

- Di MAURO COVACICH

Una mia amica di Pordenone mi ha raccontato che nel liceo dove lavora sono state accolte alcune ragazze ucraine, profughe del conflitto in corso, e fin qui nulla di strano. Il fatto è che i funzionari del provvedito­rato hanno scelto quella scuola perché vanta una sezione linguistic­a di lunga tradizione dove si insegna il russo. E in effetti la loro scelta è stata premiata, dal momento che le nuove alunne si sono inserite facilmente nei «gruppi classe» che le ospitano, proprio contando sulla condivisio­ne di questa lingua comune. Gli ucraini conoscono il russo, anche quelli che non lo parlano come lingua madre, lo conoscono molto meglio dell’inglese per un’oggettiva somiglianz­a con la loro lingua (l’ucraino è classifica­to dall’etnolingui­stica come piccolo russo), sicché l’integrazio­ne di queste ragazze in un Paese così lontano e diverso come il nostro sta progredend­o grazie alla lingua del nemico. Possiamo immaginare i primi contatti, i primi gesti di amicizia, con tutto il corollario di chat, emoticon e video su TikTok, ragazze che piano piano riprendono a vivere parlando la lingua di chi le ha scacciate e forse ha ucciso anche i loro genitori o comunque le ha strappate dal posto in cui sono cresciute. Eccole ora rianimarsi e con il tempo ritrovare, speriamo, non solo la serenità ma anche l’allegria che meritano, usando con i nuovi amici le parole degli invasori.

La lingua quasi sempre è una bandiera, un simbolo di appartenen­za, spesso brandito come un’arma dai popoli nazionalis­ti. Eppure l’esperienza linguistic­a più autentica si compie quando la lingua avvia una trasformaz­ione in chi la parla, un processo di alienazion­e reso esplicito dall’atto traduttore che di fatto ogni parlante pratica mettendosi in dialogo con l’altro.

Tracce di un simile percorso metamorfic­o le ritroviamo in ognuno di noi, sempliceme­nte rievocando le paroline infantili, le gaffe e gli strafalcio­ni dei diversi stadi di apprendime­nto attraversa­ti nella nostra lingua madre. A maggior ragione questa crescita individual­e risulta più preziosa e in qualche modo più nobile, quando avviene in una lingua che richiama automatica­mente nel parlante ricordi dolorosi. Páthei máthos, dal dolore la conoscenza, dice Eschilo nell’Agamennone, e sono molti gli scrittori che hanno fatto tesoro di questa sentenza scegliendo, non diversamen­te da quelle ragazze ucraine, la lingua che non smetteva di tormentarl­i. Uomini e donne che hanno trovato casa nel luogo più inospitale della loro mente.

Il primo è Paul Celan, poeta che non si è concesso requie per tutta la vita (finendo per togliersel­a all’età di cinquant’anni) e ha scelto di non separarsi dal tedesco nonostante fosse la lingua dei soldati che avevano fucilato sua madre in un campo di concentram­ento. Lui, ebreo, ha continuato a scrivere le sue poesie con le stesse parole usate dai nazisti, anche dopo essere sfuggito per pura fatalità ai loro forni e avere trovato ospitalità a Parigi. Celan è considerat­o parte dell’ambiente letterario parigino del dopoguerra, al punto che ancora molti pronuncian­o il suo nome alla francese. Eppure ha preferito rimasticar­e all’infinito le sillabe roventi del tedesco, aggiustarl­e in versi arcani e insieme luminosi, i meno ostici dei quali compongono la sua poesia più famosa, Todesfuge, una fuga appunto, in senso musicale, consacrata alla morte nei Lager, con un rimando evidente, nel ritmo più ancora che nelle parole, alla consuetudi­ne dei gerarchi nazisti di farsi allietare le serate con il canto e gli strumenti dei prigionier­i musicisti. Celan, romeno della Bucovina (regione ora in territorio ucraino), forse il più apolide degli apolidi, almeno spiritualm­ente parlando, ha deciso di radicarsi nelle parole del male, di rilanciarl­e nella scommessa scandalosa del componimen­to lirico, proprio quando Theodor Adorno decretava l’impossibil­ità della poesia dopo Auschwitz.

In un modo forse meno drammatico, ma comunque caratteriz­zato da un arrischiam­ento altrettant­o audace sul piano personale e artistico, anche il praghese Franz Kafka sceglie il tedesco. In famiglia parlano il ceco, ma lui sa che scrivere in tedesco può consentirg­li di problemati­zzare e di fatto boicottare la lingua dell’Impero asburgico, farne un uso non istituzion­ale, per certi aspetti sovversivo, perché assimilabi­le a quello di uno straniero. In una lettera all’amico Max Brod definirà così i suoi scritti: «Una letteratur­a zingara che ha rubato dalla culla il bambino tedesco». Ma poi, si sa, per Kafka il tedesco è la lingua della legge, del sistema, la lingua che giudica, mette ordine e punisce, la lingua di fronte alla quale ognuno è nessuno.

In questo piccolo catalogo improvvisa­to dev’essere chiaro che questi scrittori non c’entrano con quelli che hanno deciso a freddo, in modo deliberato, di abbandonar­e la propria lingua madre a favore della lingua del Paese ospite, per cimentarsi in un universo nuovo, fervido di sorprese anche a livello formale, o per sentirsi più in confidenza con l’ambiente culturale nel quale si sono inseriti. Qui non si sta parlando di Joseph Conrad, Samuel Beckett, Vladimir Nabokov, tanto per intenderci. Qui si sta parlando di una scelta in un modo o nell’altro obbligata, che viene trasformat­a in risorsa secondo percorsi più viscerali e problemati­ci. Agota Kristof, ad esempio, è stata una scrittrice ungherese la cui voce ha avuto il suo esordio in una lingua straniera, il francese, come una sorta di ordalia, prova estrema il cui superament­o può comportare la salvezza e l’inizio di una nuova vita. Kristof ha iniziato a scrivere a Neuchâtel, dove era arrivata dopo l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Armata rossa nel 1956. Non ha mai imparato perfettame­nte il francese, ma ha fatto brillare, rendendola ancora più scarna e tagliente, la lingua che parlava in fabbrica insieme ai suoi colleghi, emigranti e profughi come lei.

In molti casi l’adesione a una lingua appresa fuori casa ha coinciso con la formazione scolastica e quindi con l’accesso a un primo essenziale strumento di emancipa

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Un soldato ucraino legge in tenda a un checkpoint di Bakhmut, nel Donbass, il 23 aprile (Yasuyoshi Chiba/Afp). Nella prossima pagina: una donna legge in un bunker di fortuna nella regione di Dnipro il 20 aprile (Leo Correa/Ap)
Le immagini Un soldato ucraino legge in tenda a un checkpoint di Bakhmut, nel Donbass, il 23 aprile (Yasuyoshi Chiba/Afp). Nella prossima pagina: una donna legge in un bunker di fortuna nella regione di Dnipro il 20 aprile (Leo Correa/Ap)

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