Corriere della Sera - La Lettura
La lingua del nemico
Una mia amica di Pordenone mi ha raccontato che nel liceo dove lavora sono state accolte alcune ragazze ucraine, profughe del conflitto in corso, e fin qui nulla di strano. Il fatto è che i funzionari del provveditorato hanno scelto quella scuola perché vanta una sezione linguistica di lunga tradizione dove si insegna il russo. E in effetti la loro scelta è stata premiata, dal momento che le nuove alunne si sono inserite facilmente nei «gruppi classe» che le ospitano, proprio contando sulla condivisione di questa lingua comune. Gli ucraini conoscono il russo, anche quelli che non lo parlano come lingua madre, lo conoscono molto meglio dell’inglese per un’oggettiva somiglianza con la loro lingua (l’ucraino è classificato dall’etnolinguistica come piccolo russo), sicché l’integrazione di queste ragazze in un Paese così lontano e diverso come il nostro sta progredendo grazie alla lingua del nemico. Possiamo immaginare i primi contatti, i primi gesti di amicizia, con tutto il corollario di chat, emoticon e video su TikTok, ragazze che piano piano riprendono a vivere parlando la lingua di chi le ha scacciate e forse ha ucciso anche i loro genitori o comunque le ha strappate dal posto in cui sono cresciute. Eccole ora rianimarsi e con il tempo ritrovare, speriamo, non solo la serenità ma anche l’allegria che meritano, usando con i nuovi amici le parole degli invasori.
La lingua quasi sempre è una bandiera, un simbolo di appartenenza, spesso brandito come un’arma dai popoli nazionalisti. Eppure l’esperienza linguistica più autentica si compie quando la lingua avvia una trasformazione in chi la parla, un processo di alienazione reso esplicito dall’atto traduttore che di fatto ogni parlante pratica mettendosi in dialogo con l’altro.
Tracce di un simile percorso metamorfico le ritroviamo in ognuno di noi, semplicemente rievocando le paroline infantili, le gaffe e gli strafalcioni dei diversi stadi di apprendimento attraversati nella nostra lingua madre. A maggior ragione questa crescita individuale risulta più preziosa e in qualche modo più nobile, quando avviene in una lingua che richiama automaticamente nel parlante ricordi dolorosi. Páthei máthos, dal dolore la conoscenza, dice Eschilo nell’Agamennone, e sono molti gli scrittori che hanno fatto tesoro di questa sentenza scegliendo, non diversamente da quelle ragazze ucraine, la lingua che non smetteva di tormentarli. Uomini e donne che hanno trovato casa nel luogo più inospitale della loro mente.
Il primo è Paul Celan, poeta che non si è concesso requie per tutta la vita (finendo per togliersela all’età di cinquant’anni) e ha scelto di non separarsi dal tedesco nonostante fosse la lingua dei soldati che avevano fucilato sua madre in un campo di concentramento. Lui, ebreo, ha continuato a scrivere le sue poesie con le stesse parole usate dai nazisti, anche dopo essere sfuggito per pura fatalità ai loro forni e avere trovato ospitalità a Parigi. Celan è considerato parte dell’ambiente letterario parigino del dopoguerra, al punto che ancora molti pronunciano il suo nome alla francese. Eppure ha preferito rimasticare all’infinito le sillabe roventi del tedesco, aggiustarle in versi arcani e insieme luminosi, i meno ostici dei quali compongono la sua poesia più famosa, Todesfuge, una fuga appunto, in senso musicale, consacrata alla morte nei Lager, con un rimando evidente, nel ritmo più ancora che nelle parole, alla consuetudine dei gerarchi nazisti di farsi allietare le serate con il canto e gli strumenti dei prigionieri musicisti. Celan, romeno della Bucovina (regione ora in territorio ucraino), forse il più apolide degli apolidi, almeno spiritualmente parlando, ha deciso di radicarsi nelle parole del male, di rilanciarle nella scommessa scandalosa del componimento lirico, proprio quando Theodor Adorno decretava l’impossibilità della poesia dopo Auschwitz.
In un modo forse meno drammatico, ma comunque caratterizzato da un arrischiamento altrettanto audace sul piano personale e artistico, anche il praghese Franz Kafka sceglie il tedesco. In famiglia parlano il ceco, ma lui sa che scrivere in tedesco può consentirgli di problematizzare e di fatto boicottare la lingua dell’Impero asburgico, farne un uso non istituzionale, per certi aspetti sovversivo, perché assimilabile a quello di uno straniero. In una lettera all’amico Max Brod definirà così i suoi scritti: «Una letteratura zingara che ha rubato dalla culla il bambino tedesco». Ma poi, si sa, per Kafka il tedesco è la lingua della legge, del sistema, la lingua che giudica, mette ordine e punisce, la lingua di fronte alla quale ognuno è nessuno.
In questo piccolo catalogo improvvisato dev’essere chiaro che questi scrittori non c’entrano con quelli che hanno deciso a freddo, in modo deliberato, di abbandonare la propria lingua madre a favore della lingua del Paese ospite, per cimentarsi in un universo nuovo, fervido di sorprese anche a livello formale, o per sentirsi più in confidenza con l’ambiente culturale nel quale si sono inseriti. Qui non si sta parlando di Joseph Conrad, Samuel Beckett, Vladimir Nabokov, tanto per intenderci. Qui si sta parlando di una scelta in un modo o nell’altro obbligata, che viene trasformata in risorsa secondo percorsi più viscerali e problematici. Agota Kristof, ad esempio, è stata una scrittrice ungherese la cui voce ha avuto il suo esordio in una lingua straniera, il francese, come una sorta di ordalia, prova estrema il cui superamento può comportare la salvezza e l’inizio di una nuova vita. Kristof ha iniziato a scrivere a Neuchâtel, dove era arrivata dopo l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Armata rossa nel 1956. Non ha mai imparato perfettamente il francese, ma ha fatto brillare, rendendola ancora più scarna e tagliente, la lingua che parlava in fabbrica insieme ai suoi colleghi, emigranti e profughi come lei.
In molti casi l’adesione a una lingua appresa fuori casa ha coinciso con la formazione scolastica e quindi con l’accesso a un primo essenziale strumento di emancipa