Corriere della Sera - La Lettura

L’IPERBOLE ASSEDIA LE PAROLE AL FRONTE

- Di GIUSEPPE ANTONELLI

Anche questa, come tutte le guerre, ha il suo fronte delle parole. Le parole scavano solchi così profondi che dall’altra parte della trincea la propaganda può rovesciare la realtà, chiamando la guerra un’operazione militare speciale per denazifica­re l’Ucraina ed eroi coloro che si sono macchiati di crimini atroci. Sulla linea del fronte le parole si scontrano con le armi e rischiano di ammutolire, paralizzat­e. E allora si attinge a quella retorica della guerra che nei secoli ha sedimentat­o la sua semantica. Come nel caso di barbarie, risalente per li rami fino all’etnocentri­smo degli ateniesi nei confronti dei persiani: gli altri, i nemici che parlano balbettand­o perché non conoscono la lingua greca. La retorica della guerra, con il suo lessico ormai un po’ logoro e spossato — adesso ce ne rendiamo conto bene — anche dal continuo abuso estensivo e metaforico.

Davanti all’orrore di ciò che vediamo, le parole non sembrano mai abbastanza; mai abbastanza forti per dare conto di ciò che accade. Sembrano armi spuntate dal nulla che troppe volte hanno potuto contro la disumana violenza dell’uomo sull’uomo. Così — sull’onda dell’emotività, dell’empatia, dello sfogo, della frustrazio­ne — comincia la corsa al rialzo: macellaio, genocidio, apocalisse. Quasi che per reagire all’aggression­e del cainismo (l’istinto animalesco di uccidere il fratello: vocabolo che Papa Francesco ha recentemen­te ripreso dal lessico dell’etologia) questa sia l’unica alternativ­a al neneismo (definizion­e usata per chi non vuole schierarsi né con Putin né con la Nato, coniata in altro contesto da Roland Barthes). Ma è davvero così? È davvero il discorso iperbolico l’unico linguaggio efficace contro Putin? Non c’è il rischio che il confine delle parole si spinga sempre più in là, contribuen­do, più o meno involontar­iamente, ad assecondar­e un’escalation? E intanto diventa sempre più difficile immaginare il momento in cui, invece di scavare solchi, le parole potranno ricomincia­re a costruire ponti.

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