Corriere della Sera - La Lettura
Il ritorno dall’esilio
Scapparono dai regimi comunisti dell’Europa orientale o, una generazione prima, dalla povertà o dalle persecuzioni naziste: sono gli autori che nutrono la scrittura di una distanza che si fa vicinanza. Dal romeno al ceco fino al russo rivivono la patria perduta nelle loro opere. Altri, laggiù sono andati davvero a cercare le radici: l’«huligano» Altri ancora erano troppo immersi nell’America per voltarsi indietro: come
Il signor Cambreleng, misterioso editore parigino senza casa editrice, cerca di tenere insieme un gruppo di scrittori falliti. Sono francesi, ma anche polacchi, cechi, ungheresi, russi, romeni, bulgari; sono esuli dell’Europa orientale convinti di incontrare a Parigi altri esuli diventati scrittori di fama come Ionesco, Cioran, Eliade. Tra loro c’è anche Matei Visniec, profugo romeno, autore della poesia La nave che, tra il 1987 e il 1989, ha creato in patria «un’onda d’urto riflessiva tale da condurre al crollo del comunismo di Stato nell’intera Europa dell’Est». Il personaggio Matei porta il nome dell’autore di questo grottesco romanzo intitolato Sindrome da panico nella Città dei Lumi, pubblicato da Voland. Nato nel 1956 in Bucovina, Visniec, tra i più importanti drammaturghi contemporanei, per anni ha scritto pièce teatrali circolate clandestinamente, fino a quando, nel 1987, si rifugia a Parigi ottenendo asilo politico e la Francia diventa la nuova casa, il francese la nuova lingua. Il suo libro, da poco uscito in Italia, è una bella e riuscita metafora sulla condizione dello scrittore espatriato. C’è sempre un Paese a cui tornare, fisicamente o soltanto nella scrittura, dolce o dolorosa ossessione di chi se n’è andato, non necessariamente per motivi politici.
Visniec affida la riflessione sulla scrittura come spazio di libertà da conquistare ai personaggi del suo romanzo, quegli aspiranti scrittori dai tratti deformati, divisi tra comunismo e consumismo. Come la ceca Jaroslava, «primo essere umano di Praga a sentire un milione di stivali, il che significava cinquecentomila soldati, che marciavano sul suolo cecoslovacco»; o Pantelis Vassilikioti, dalle multiple origini e nessuna lingua materna; o ancora Hung Fao, «il Solženitsyn cinese», spedito da Pechino «insieme ad altri 30 milioni di giovani, in campagna, per approfondire la rivoluzione». Le origini romene ricorrono continuamente nell’opera di Visniec che scrive i testi teatrali in francese e usa la lingua madre per i romanzi criticando non soltanto le dittature ma anche le storture delle democrazie occidentali. Per molti scrittori contemporanei, divisi tra la madrepatria e il nuovo Paese in cui hanno deciso di vivere, la scelta della lingua assume il significato di una dichiarazione. L’elastico che li tiene legati alla loro terra può tendersi al massimo o per nulla, ma comunque i due capi rimangono saldamente cuciti a due lembi di terra.
Claudiu M. Florian, anche lui romeno, nato in Transilvania, da tempo residente