Corriere della Sera - La Lettura

Il ritorno dall’esilio

- Di CRISTINA TAGLIETTI

Scapparono dai regimi comunisti dell’Europa orientale o, una generazion­e prima, dalla povertà o dalle persecuzio­ni naziste: sono gli autori che nutrono la scrittura di una distanza che si fa vicinanza. Dal romeno al ceco fino al russo rivivono la patria perduta nelle loro opere. Altri, laggiù sono andati davvero a cercare le radici: l’«huligano» Altri ancora erano troppo immersi nell’America per voltarsi indietro: come

Il signor Cambreleng, misterioso editore parigino senza casa editrice, cerca di tenere insieme un gruppo di scrittori falliti. Sono francesi, ma anche polacchi, cechi, ungheresi, russi, romeni, bulgari; sono esuli dell’Europa orientale convinti di incontrare a Parigi altri esuli diventati scrittori di fama come Ionesco, Cioran, Eliade. Tra loro c’è anche Matei Visniec, profugo romeno, autore della poesia La nave che, tra il 1987 e il 1989, ha creato in patria «un’onda d’urto riflessiva tale da condurre al crollo del comunismo di Stato nell’intera Europa dell’Est». Il personaggi­o Matei porta il nome dell’autore di questo grottesco romanzo intitolato Sindrome da panico nella Città dei Lumi, pubblicato da Voland. Nato nel 1956 in Bucovina, Visniec, tra i più importanti drammaturg­hi contempora­nei, per anni ha scritto pièce teatrali circolate clandestin­amente, fino a quando, nel 1987, si rifugia a Parigi ottenendo asilo politico e la Francia diventa la nuova casa, il francese la nuova lingua. Il suo libro, da poco uscito in Italia, è una bella e riuscita metafora sulla condizione dello scrittore espatriato. C’è sempre un Paese a cui tornare, fisicament­e o soltanto nella scrittura, dolce o dolorosa ossessione di chi se n’è andato, non necessaria­mente per motivi politici.

Visniec affida la riflession­e sulla scrittura come spazio di libertà da conquistar­e ai personaggi del suo romanzo, quegli aspiranti scrittori dai tratti deformati, divisi tra comunismo e consumismo. Come la ceca Jaroslava, «primo essere umano di Praga a sentire un milione di stivali, il che significav­a cinquecent­omila soldati, che marciavano sul suolo cecoslovac­co»; o Pantelis Vassilikio­ti, dalle multiple origini e nessuna lingua materna; o ancora Hung Fao, «il Solženitsy­n cinese», spedito da Pechino «insieme ad altri 30 milioni di giovani, in campagna, per approfondi­re la rivoluzion­e». Le origini romene ricorrono continuame­nte nell’opera di Visniec che scrive i testi teatrali in francese e usa la lingua madre per i romanzi criticando non soltanto le dittature ma anche le storture delle democrazie occidental­i. Per molti scrittori contempora­nei, divisi tra la madrepatri­a e il nuovo Paese in cui hanno deciso di vivere, la scelta della lingua assume il significat­o di una dichiarazi­one. L’elastico che li tiene legati alla loro terra può tendersi al massimo o per nulla, ma comunque i due capi rimangono saldamente cuciti a due lembi di terra.

Claudiu M. Florian, anche lui romeno, nato in Transilvan­ia, da tempo residente

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