Corriere della Sera - La Lettura
Il mondo è un corpo molto infiammato
Strategia
«Mi piacciono la scienza e il sistema della valutazione incrociata dei lavori scientifici: i vaccini sono l’esito di questo metodo»
«Non dobbiamo vedere il nostro organismo separato dalla Terra e dalle forze sociali: è malato perché fa parte di una società malata»: l’economista indo-britannico Raj Patel lancia l’allarme. Con un libro, scritto assieme al medico Rupa Marya, e con questa intervista
C’è qualcosa di grande che noi europei e gli americani non riusciamo a vedere, dice Raj Patel. È «un movimento globale di base, per esempio otto milioni di organizzazioni contadine, che sta crescendo nel mondo», sostiene. Soprattutto in quello più povero, di mondo.
L’economista e attivista di origine indiana, nato a Londra, vissuto in Africa e oggi professore alla University of Texas di Austin, ha scritto, assieme al medico Rupa Marya, un libro strano per invenzione narrativa: si presenta da trattato di medicina ma in realtà è un manifesto politico. Dice che il nostro corpo è debole perché il pianeta è stato indebolito, anzi messo a fuoco. Si intitola Infiammazione. Medicina, conflitto e disuguaglianza ed è pubblicato da Feltrinelli.
Professor Patel, nel libro lei e la dottoressa Marya parlate di infiammazione sistemica. Che cos’è?
«Dobbiamo allontanarci dal modo di vedere il corpo separato dal mondo e dalle forze sociali. Oggi il nostro corpo è in fiamme perché è parte di una società infiammata. I cambiamenti climatici, le ingiustizie, il sistema dell’informazione, il razzismo, il patriarcato. Il corpo è sotto coercizione e ciò produce malattie. L’origine dell’infiammazione sono fattori sociali, politici ed ecologici; tutto è interconnesso».
Concretamente, quali sono i fattoti di quest’infiammazione?
«Il più ovvio è il cambiamento del clima. Qui negli Stati Uniti, negli ultimi tempi un americano su tre ha sperimentato direttamente gli effetti del climate change che ha causato inondazioni, incendi, siccità. Ma non è solo quello: c’è la chimica nei cibi, c’è l’impoverimento della qualità dei suoli, c’è l’agricoltura industriale. In questo senso il nostro pianeta sta bruciando».
Che relazione ha tutto ciò con il nostro corpo e con le malattie?
«Il nostro stato fisiologico è una reazione a fattori ambientali e sociali. Nel libro, ogni capitolo è dedicato a ognuno dei sistemi fisiologici, da quello digestivo a quello riproduttivo, da quello neurologico a quello respiratorio. E tracciamo le relazioni che esistono tra l’esterno e le nostre malattie. È una teoria medica nuova per le società avanzate ma ben conosciuta nelle popolazioni indigene, le quali la sostengono da tempo. Se guardiamo al nostro tessuto connettivo, per esempio, non possiamo non pensare agli effetti del colore della pelle e del razzismo sulle malattie dei cittadini neri. Quest’approccio vale per ogni parte del nostro corpo. Nel libro si parla di esposoma, cioè dell’insieme delle influenze ambientali alle quali un organismo è esposto sin dalla nascita».
Come legge la pandemia da Covid19, in questo quadro?
«Il Covid è emerso dalla dominazione umana sulla vita sul pianeta. Le indagini più recenti indicano che si origina ed evolve naturalmente perché forme di vita animale sono spinte assieme e ciò ha dato al virus l’opportunità di svilupparsi e diffondersi. Qui negli Stati Uniti, poi, la situazione è peggiorata per ragioni di ordine sociale: in hot spot in cui si è diffuso tremendamente, come le prigioni e negli impianti di trattamento della carne».
Non vede una responsabilità primaria della Cina, dalla quale la pandemia è scaturita?
«Ogni Stato che nasconde i dati e ritarda la risposta ha una certa colpa. La Cina avrebbe dovuto muoversi settimane prima. Ma tutti i governi hanno responsabilità per il modo nel quale la pandemia è stata affrontata. Certamente qui in America. E in India, dove ancora si nega l’alto numero di morti. Non sono sorpreso del Covid-19, in passato c’erano già state epidemie mortali favorite dalla distruzione delle foreste, dall’uso eccessivo degli antibiotici, dalle condizioni delle classi lavoratrici».
Che cosa pensa della crescita economica, della sua centralità?
«Mi piacciono l’innovazione e le buone cose. E anche un pianeta nel quale si possa vivere. Ma il fatto che il Pil sia l’unico criterio che guida il mondo mi pare assurdo. Sono il capitalismo e il blocco egemonico in cui viviamo a portarci verso il collasso del pianeta se la crescita continuerà così. Siamo di fronte a una scelta: crescita economica o sopravvivenza del pianeta».
Che cosa intende per «blocco egemonico»?
«Lo intendo come lo intendeva il grande italiano Antonio Gramsci. La coalizione tra industriali, finanzieri e una parte della classe lavoratrice. I quali influenzano lo Stato».
Lei è marxista?
«Ho forti simpatie verso il marxismo, soprattutto nella lettura della realtà. E anche verso l’anarchismo. Ma non è tutto lì. Oggi l’ecologia è un terreno di confronto centrale».
Che cosa pensa della medicina moderna e di quella tradizionale?
«Mi piace la scienza. E mi piace il sistema della peer-review (la valutazione incrociata dei lavori scientifici, ndr ):i vaccini sono il risultato di questo metodo. Il problema è che esclude certa conoscenza, ad esempio quella degli indigeni. Occorrono più scienza e una scienza migliore».
La vostra proposta, o soluzione, è la «deep medicine», la medicina profonda. Che cos’è?
«È un modo per riconoscere che ci serve un ecosistema che ci permetta di vivere. È la trasformazione dell’economia estrattiva nella care-economy (l’economia dell’accoglienza e dell’accudimento, ndr). Un sistema economico che dev’essere globale, non solo in funzione in qualche angolo della Germania o dell’Italia del Nord. È prima di tutto un cambiamento di pensiero. La medicina profonda sta nel non separare le cose, nel non isolare per curare ma nel lasciare le persone e le comunità nelle reti di rapporti che producono sia la malattia sia la guarigione. Abbiamo un rapporto errato con i terreni, con le piante, con gli animali, con i fiumi, con l’aria. Ci serve un Green New Deal antimperialista che ci riporti sulla strada della guarigione. Si tratta di decolonizzare la medicina: Rupa Marya non trovava un libro che spiegasse come farlo, per questo abbiamo scritto Infiammazione, che è un libro di medicina».
Che cosa si sta muovendo in questa direzione?
«C’è un movimento globale di base che vedo chiaramente. Ci sono per esempio 8 milioni di organizzazioni contadine su questa strada. E molte altre, di genere diverso, sempre più in contatto tra loro. In Europa e negli Stati Uniti prevale una mentalità ristretta, provinciale, che impedisce di vedere questa realtà. Ma è un movimento sociale globale. Non siamo naif, ci sono forze potenti che gli si oppongono. Ma, sempre con Gramsci, io credo nel pessimismo dell’intelligenza e nell’ottimismo della volontà».
In fondo alla strada che cosa c’è? La fine del capitalismo?
«Alla fine vedo un cambiamento di sistema. Radicale. Per esempio, non meno razzismo ma niente razzismo. L’ambizione è quella di un grande cambiamento».