Corriere della Sera - La Lettura
Il 13 maggio l’Italia esaurisce le sue riserve
Siamo alla vigilia del giorno in cui finiamo le risorse che si possono rigenerare
Immaginate di avere un budget annuale che vi viene fornito dagli interessi su una ricca eredità, fortunati voi. All’alba del 13 maggio però lo avete sciaguratamente già speso tutto e dal giorno successivo vi tocca andare a lavorare. Oppure, immaginate di avere un reddito annuale e di consumarlo interamente già a maggio. Da quel momento in poi, per vivere, dovrete fare debiti. Peccato che l’anno successivo succederà lo stesso e quindi accumulerete debiti su debiti, che a un certo punto qualcuno dovrà pur saldare. Non è una situazione piacevole, eppure è quanto sta accadendo in Italia nel rapporto tra le attività umane e le risorse naturali.
Il calcolo proposto dal Global Footprint Network, fondato e diretto da Mathis Wackernagel, è abbastanza semplice. Mettiamo su un piatto della bilancia le risorse che la Terra è in grado di rigenerare ogni anno, cioè la sua bio-capacità. Se l’umanità consumasse la stessa quantità di risorse, o meno, sarebbe «sostenibile», parola oggi abusata che non dovrebbe perdere il suo significato originario, ovvero: in quel caso virtuoso le attività economiche e sociali della nostra specie brucerebbero risorse compensate e rinnovate ogni anno dal pianeta, dunque senza lasciare debiti alla generazione successiva. Purtroppo, non è così da almeno mezzo secolo e ci stiamo sempre più allontanando da questo equilibrio.
Il fatidico giorno chiamato Earth Overshoot Day è quello in cui, sui 365 totali, l’umanità raggiunge la soglia di consumo di risorse naturali pari alla capacità della Terra di rigenerarle. Da quella data in poi, andiamo oltre, cioè erodiamo risorse che non verranno rinnovate. In pratica, è il giorno a partire dal quale, ogni anno, viviamo al di sopra delle nostre possibilità, accumulando debito ambientale che sarà pagato da chi verrà dopo di noi. Poiché non è facile valutare l’impatto di tutte le attività umane né gli effetti moltiplicativi della distruzione delle risorse, qualcuno sospetta che questi calcoli siano persino sottostimati.
La retrocessione dell’Overshoot Day verso i primi mesi dell’anno è stata negli ultimi decenni impressionante. Nel 1972 era il 10 dicembre. Negli anni Ottanta è passato da novembre a ottobre. Nell’anno 2000 cadde il 22 settembre. Poi una galoppata all’indietro fino ai primi di agosto. Nel 2020 il rallentamento dovuto alla pandemia, a sua volta frutto di squilibri ecologici,
lo aveva risospinto in avanti fino al 22 agosto, cioè tre settimane dopo rispetto al 2019. Nel 2021 siamo presto tornati alle vecchie abitudini e il giorno in cui la nostra avida domanda di risorse e di servizi ecosistemici ha superato l’offerta è caduto il 29 di luglio (ai livelli del 2017 e prossimi al record negativo assoluto del 2018, quando l’Overshoot Day fu il 25 luglio). Per soddisfare le nostre esigenze avremmo bisogno di 1,75 pianeti Terra e prima della metà di questo secolo avremo bisogno di due pianeti interi. Il problema è che ne abbiamo uno solo e la colonizzazione di Marte resta un sogno visionario per miliardari in cerca di inesistenti (o troppo lontani) pianeti B.
Queste sono le medie planetarie globali. La visualizzazione grafica qui sopra mostra anche le forti disparità tra nazioni, con l’Italia in una preoccupante settima posizione mondiale, appunto al 13 maggio, sopra persino alla Cina (che però ha un’estensione maggiore di territorio che assorbe gas serra). I critici sostengono che questi calcoli grezzi sottovalutano le capacità rigenerative del pianeta e sono troppo centrati sull’anidride carbonica (che pesa per il 57% su queste misure) e sulla capacità di assorbimento di questa da parte della Terra. Inoltre, ci sono forti disparità negli indicatori da Paese a Paese.
Comunque sia, il fatto che l’Overshoot Day arrivi un po’ prima ogni anno non è un gioco per ecologisti. Ha conseguenze nefaste che vanno oltre l’ingiusto debito ambientale che stiamo scaricando sulle inconsapevoli e incolpevoli generazioni future.
La conseguenza più pericolosa — che le maggiori riviste scientifiche mondiali stanno segnalando con forza da quando è scattata la guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina — è che il consumo crescente di risorse non rinnovabili come carbone, petrolio e gas aumenta la dipendenza da Paesi inaffidabili, fa lievitare i prezzi, destabilizza intere regioni, genera conflitti sempre più allarmanti. Si parla ormai di insicurezza strutturale delle risorse e di «insicurezza climatica». Insomma, rischiamo di pagare caro il trentennale ritardo nella transizione verso risorse rinnovabili e dovremmo rimarcare le responsabilità di chi per tutto questo tempo ha contribuito a tale lentezza con argomenti speciosi e confusivi.
Una possibile soluzione per non continuare a vivere in deficit sarebbe quella di alzare la capacità della Terra di rigenerare risorse, per esempio attraverso nuove tecnologie in grado di moltiplicare l’efficienza di sfruttamento delle energie rinnovabili. Concepire e sviluppare una crescita sostenibile è la grande speranza della green economy, che difficilmente sarà sufficiente senza un cambiamento profondo nei modelli di consumo, a partire da una maggiore redistribuzione delle ricchezze e da una forte riduzione degli sprechi.
I pessimisti, come il grande naturalista Sir David Attenborough, dicono che «chi crede nella crescita infinita su un pianeta fisicamente finito o è un pazzo o è un economista». Gli ottimisti invece aspettano che la creatività tecnologica umana estragga il coniglio dal cilindro, prima o poi. Il punto sarà riuscire ad arrivare non troppo ammaccati a quel poi.