Corriere della Sera - La Lettura
Ha un cuore di tenebra anche il Kentucky
Con il romanzo d’esordio Alex Taylor — che è stato operaio, cameriere, giardiniere, ambulante, coltivatore di tabacco e venditore di auto usate — richiama William Faulkner: si cala nell’America rurale toccando più di un genere letterario
Kentucky. Geograficamente è più Sud degli Stati Uniti che Midwest, eppure riesce a essere entrambe le cose, specie in letteratura: una terra aspra, di colline lacerate dalle miniere di carbone, vecchi fiumi insidiosi, distillerie clandestine e hillbilly, gente rurale le cui abitudini non sono cambiate molto negli ultimi cinquant’anni. Un luogo ingrato e ostile, che non sempre si riconosce nelle caratteristiche, nella tradizione e nel mito del «Grande Sud».
È qui che si muove — e ben presto dovrà farlo velocemente — Beam Sheetmire, pecora nera di una famiglia di campagnoli vasta e famigerata, con una reputazione di violenza che riguarda in particolare suo padre Clem, il traghettatore. Ma Beam, il pallido e biondo spilungone Beam, può davvero essere figlio di quell’uomo tozzo e olivastro come tutti gli Sheetmire? Quando lo incontriamo, all’inizio de Il giardino di marmo, primo romanzo e debutto italiano di Alex Taylor, già noto in patria come autore di racconti che uniscono la violenza dei temi a una lingua ricercata e sontuosa, Beam sta giusto domandandosi, di fronte a quei volti così diversi dal suo, se sia davvero uno Sheetmire. E del resto «Sei uno Sheetmire?» è la domanda che gli fa chiunque incontri, in una terra ancora abituata a ragionare per clan, famiglie e conseguenti affinità (e ostilità). Non ci sarà molto tempo per riflettere sulla questione, dato che Beam, trovandosi con le mani involontariamente sporche di sangue, sarà costretto alla fuga. Non tanto dalla legge, quanto da Loat Duncan, un temuto caporione locale, noto a tutti in quanto ladro, fuorilegge, magnaccia e assassino, nonché padre dell’uomo da lui ucciso.
Con la fuga di Beam Sheetmire prende le mosse un oscuro noir filosofico, sorretto nelle sue alte ambizioni di parabola morale da una prosa in cui echeggia, più che il Cormac McCarthy evocato da molti commentatori statunitensi, il suo padrino William Faulkner, da cui Taylor recupera anche una vocazione alla polifonia ben diversa dalla narrazione monolitica di quel Suttree, il libro mcarthiano del 1979 che ha evocato certi accostamenti. Ma c’è di più: Taylor non si limita a cedere alle forze della mitologia del Midwest (o di quella del Southern gothic): controlla e doma con sapienza entrambe, coltivando, mentre lo fa, un gusto per il grottesco che si esplicita nella mirabolante galleria di comprimari di questo Giardino di marmo. Una ménagerie umana tale da accostarlo a maestri della rielaborazione postmoderna della lezione faulkneriana, come il Donald Ray Pollock di Knockemstiff (incidentalmente appena ripubblicato dagli Oscar Mondadori) e il duo Garth Ennis & Steve Dillon di Preacher, ancor prima che al suo conterraneo Chris Offutt, o al re del country noir Daniel Woodrell.
Mentre la vicenda si sposta dal punto di vista di Beam a quello degli altri personaggi, da sua madre allo sceriffo Elvis fino al bieco Loat, il testo guadagna livelli di lettura facendosi via via più profondo, fino a sfiorare abissi melvilliani, con un portato simbolico sempre in agguato ma che non emerge mai a un livello tale da mangiarsi la narrazione. Non c’è del resto troppo tempo per pensare, nel mondo di Alex Taylor: siamo in luoghi malvagi, pieni di gente malvagia, dove la salvezza non è che un discorso che fanno i preti e che nessuno ha mai davvero ascoltato.
Alla grande prosa della voce narrante fanno contraltare i dialoghi concisi e ruvidi, a volte saggi e sempre beffardi, dei personaggi di questo «Midwest del sud» in cui ogni grandezza è perduta, ma nelle cui ombre continuano a celarsi misteri più grandi degli uomini che li custodiscono: ne è testimone il fiume Gasping, dove a volte, nonostante il divario di proporzioni, pare di sentire l’eco del fiume Congo di Cuore di tenebra.
Si parva licet componere magnis, dirà qualcuno, e non solo riguardo ai fiumi, se si arriva a tirare in ballo Conrad per parlare di un ignoto e relativamente giovane autore di Rosine, Kentucky, 110 abitanti secondo l’ultimo censimento; ma la verità è che Il giardino di marmo non sfigura neanche davanti ai classici, e se si considera che siamo di fronte a un primo romanzo, ancorché non a un vero esordio, appare evidente che quella di Taylor, a cui non manca neanche una biografia da «vero-autore-americano-non-di-città» — prima di pubblicare ha lavorato come operaio in una fabbrica di accendini, cameriere di fast-food, giardiniere, ambulante, coltivatore di tabacco e venditore di auto usate — è una voce non soltanto destinata a durare, ma anche a lasciare un segno, e a cominciare da adesso.