Corriere della Sera - La Lettura
Padre e figlia ribelle, il domani è okkupato
Un aspro confronto generazionale affidato alla prosa dello spagnolo José Ovejero
Una ragazzina ribelle, Ana, e un padre, Aitor, vittima e insieme ingranaggio del «sistema». Un padre giornalista radiofonico che nonostante ami la figlia diciassettenne come e più di sé stesso e in lei cerchi un senso per i suoi giorni di faticoso tran tran borghese — prima e dopo la dolorosa separazione dalla moglie — agli occhi bramosi di verità ed equità sociale della figlia (in fuga verso un possibile altrove dentro i meandri delle case «okkupate» di Madrid) risulta soltanto un inetto. Un imbelle incapace di rivoltarsi alle logiche perverse della società contemporanea, schiava del profitto e del successo e che stritola la dignità dell’uomo, a partire dal diritto ad avere un lavoro sicuro e un tetto sotto cui dormire, inerte davanti alla distruzione della natura e alle mutazioni del clima che mettono a rischio l’esistenza stessa del pianeta.
È un libro che sembra scritto negli anni Settanta del Novecento quello di José Ovejero, sessantaquattrenne scrittore spagnolo vissuto a lungo in Germania e a Bruxelles, ma tutt’altro che superato, se è vero che molte delle logiche in esso denunciate attraverso le vicende di Ana e dei suoi amici antisistema hanno solo mutato pelle, ma non sostanza. Anzi, quella stessa sostanza ne è uscita accresciuta e vieppiù intollerabile in questo primo scorcio di Terzo millennio che ha rivisto esplodere addirittura la guerra a latitudini che sembravano averla bandita ormai da qualche decennio.
Non si pensi però a un libro squisitamente politico. Ovejero regala al lettore di Insurrezione (pubblicato in Italia da Voland come i precedenti romanzi, sempre con l’impeccabile traduzione di Bruno Arpaia) 350 pagine di dolente immersione fra le pieghe più profonde di un rapporto padre-figlia che è — anche — l’emblema dei travagliati rapporti intergenerazionali di questi anni. Un’epoca in cui il desiderio di rivalsa e di scarto dei più giovani cozza contro una pressoché totale assenza di proposte alternative e, forse ancor di più, di prospettive di futuro e non trova davanti a sé un mondo adulto maturo e saldo cui contrapporsi e con cui confrontarsi, quanto piuttosto un esercito senz’armi di uomini e donne infelici, schiacciati da un quotidiano senza sogni, piegati e piagati, loro per primi, dalla fatica di vivere.
Aitor e Ana, padre e figlia, sono i due volti di un unico fallimento e in essi il lettore finisce inevitabilmente per specchiarsi, ingabbiato nella tela di ragno avvolgente e vischiosa della scrittura di Ovejedo, tutta ipotassi e ridondanze. Una scelta stilistica lontanissima, la sua, dalle frasi spezzettate e frammentarie tipiche del periodare oggi dominante e a cui fa da pendant, sul piano della tecnica narrativa, l’alternarsi della voce narrante: ora la terza persona dell’autore onniscente, ora la seconda singolare del «tu» che cattura. Un escamotage volto sia a marcare una distanza sia a instaurare un dialogo serrato e incalzante con il lettore, cui si chiede in tal modo, implicitamente, di vestire i panni di questo e quel protagonista. E di condividerne le pene.