Corriere della Sera - La Lettura
SI RIACCENDE IL FOCOLAIO DEL DARFUR UNA TERRA SENZA PACE NÉ GIUSTIZIA
Una coincidenza lancinante: mentre alla Corte penale internazionale dell’Aja (Cpi, la stessa che raccoglie prove per i crimini in Ucraina) va in scena il primo, stentato processo per le atrocità commesse in Darfur nel periodo 2004-2005 (un genocidio con 200 mila vittime), in quello spicchio di terra africana bruciano ancora una volta i villaggi e si uccidono i civili.
Il nome delle milizie che, secondo l’Onu, hanno massacrato almeno 150 persone domenica 24 aprile, non è cambiato: janjaweed, i famigerati «diavoli a cavallo». Questa volta i diavoli sono arrivati in moto e a bordo di pick-up tra le casupole di Kereneik, sparando e uccidendo fin dalle prime luci dell’alba.
È il massacro più sanguinoso degli ultimi anni, in una escalation di scontri a sfondo etnico (lo stesso di vent’anni fa) tra le milizie arabe e le comunità nere, governativi e ribelli autonomisti, pastori e agricoltori, in un luogo dove il cambiamento climatico ha ridotto le risorse e aumentato i conflitti.
Questa volta non affiora un legame diretto con il governo centrale di Khartoum, dove comanda la giunta militare che lo scorso ottobre ha spezzato il percorso democratico seguito alla caduta del presidente Omar al-Bashir nel 2019. Proprio Bashir è il ricercato numero uno della Corte penale internazionale: l’ultimo golpe ha reso più difficile il suo eventuale trasferimento all’Aja, dove manca all’appello anche l’ex ministro della Difesa del tempo.
L’unico imputato a processo è Ali al-Rahman, considerato il «logista» dei massacri in Darfur (eccidi, stupri, roghi ai quali avrebbe preso parte direttamente secondo le testimonianze raccolte nei campi profughi in Ciad).
Certo fa impressione la lentezza selettiva del procedimento giudiziario. I pesci grossi sono lontani, alcuni neppure ricercati. Tra i janjaweed si era fatto largo anche Mohammed Dagalo (noto con il vezzeggiativo di Hemedti, «il piccolino»), commerciante di cammelli e poi di oro. Dalle stragi in Darfur ai piani alti: già fedelissimo di Bashir, Hemedti è l’uomo più temuto della giunta oggi al potere. È lui la guida delle potenti e sanguinarie Forze di supporto rapido (di fatto eredi dei janjaweed) che hanno represso nel sangue la primavera sudanese, lui il referente del governo russo (i mercenari della Wagner operano anche in Darfur).
Il «New York Times» riporta che durante la strage del 24 aprile, innescata dal ritrovamento dei cadaveri di due nomadi arabi sospettati di furto di bestiame, Forze rapide e militari erano presenti nell’area, ma sono rimasti a guardare. Le tensioni restano. In Sudan manca la democrazia. Per il Darfur non c’è pace né giustizia.