Corriere della Sera - La Lettura
La Natura rifiorisce nei Tappeti di Gilardi
«All’inizio ho realizzato greti di torrente, sassaie; poi ho narrato la campagna dell’infanzia: cavoli nella neve, mele, mais; poi ho iniziato a viaggiare... ma l’idea è sempre la stessa: una natura ricostruita tassello dopo tassello»
Sono stati restaurati, sono stati estratti dalle teche (com’era l’idea originaria), sono ora in mostra a New York e poi entreranno in parte nella collezione del Magazzino Italian Art di Cold Spring grazie a una donazione dello stesso artista. Che si racconta alla vigilia degli 80 anni
Venti opere, la prima donazione fatta direttamente da un artista al museo, il Magazzino Italian Art di Cold Spring, New York. Parte da qui, il 7 maggio, l’avventura americana di Piero Gilardi, da queste venti opere donate, diventate il nucleo della mostra Gilardi: Tappeto-Natura (fino al 9 gennaio) curata da Elena Re. Una mostra (una sessantina di lavori in tutto) «nata dal desiderio di scoprire e di approfondire la ricerca espressiva di Gilardi» alla vigilia dei suoi ottant’anni (è nato a Torino il 3 agosto 1942). Una ricerca che, spiega il direttore Vittorio Calabrese, è legata indissolubilmente ai Tappeti-Natura: ricostruzioni in poliuretano espanso di porzioni di ambiente naturale (prati, sottoboschi, greti di fiume) che mescolano le suggestioni della Post-Pop Art, dell’Arte Povera e della Land Art.
Sono frammenti di una natura artificiale che guarda (e vuole essere d’aiuto) a quella vera, manifesti per un’ecologia politica di cui Gilardi è da sempre paladino e che lo ha portato alla guida del Pav di Torino, «centro sperimentale di arte contemporanea integrato nella natura». Questi Tappeti-Natura arrivano in mostra, tra l’altro, appena restaurati (molti dallo stesso Gilardi) e fuori dalle abituali teche (proprio come era nell’idea originaria dell’artista). Gilardi, per quanto schivo e poco amante delle interviste (mai di lunedì o dopo un giorno di festa) ha scelto di raccontarsi a «la Lettura» dal suo studio nel quartiere della Madonna del Pilone, tra il Po e la collina.
Come sono nati i «Tappeti-Natura»?
«Nel 1965 ero un giovane artista di 23 anni che credeva nelle tecnologie come strumento di libertà e di emancipazione. Il concetto del “villaggio globale” introdotto da McLuhan ci aveva tutti affascinati e ci faceva sperare in un futuro pieno di possibilità. Questa possibilità era di certo rivolta anche alle arti visive: McLuhan incentivava l’utilizzo di nuove tecnologie nel fare artistico, sottolineando il valore “immateriale” e la portata esistenziale dell’opera. Quello di cui parlo era un periodo in cui si iniziavano a intravvedere nuove aperture. Ad esempio, una stretta minoranza cominciava a interessarsi di ecologia. Soltanto una minoranza, eppure c’erano i primi segnali. Rachel Carson aveva da poco pubblicato Silent Spring, una vera dichiarazione che anticipava il movimento ambientalista. I Tappeti-Natura sono nati proprio al 1965, durante una delle mie solite passeggiate domenicali nella natura. Mi trovavo lungo il greto del torrente Sangone, nei pressi di Torino. A un certo punto mi sono imbattuto in un mucchio di rifiuti abbandonati sulla riva del torrente. Contrariato da questa visione, il mio impulso è stato quello di ricostruire una natura non inquinata. Così, utilizzando il poliuretano espanso, nato dalla trasformazione di un polimero e dunque frutto di una tecnologia, ho messo a punto i miei primi Tappeti-Natura.
Volevo creare le condizioni ideali per un
reincanto nei confronti della natura, pur utilizzando un materiale artificiale». Sono cambiati, nel tempo, i suoi «Tappeti-Natura»?
«È difficile dirlo. All’inizio ho realizzato tanti greti di torrente, tante sassaie, forse per restituire il giusto spazio a quella natura così invasa dai rifiuti. Poi ho prodotto molti tappeti con immagini di campagna: i cavoli nella neve, le mele cadute dall’albero, il mais... Quando ero un bimbo di pochi mesi, a causa della guerra, la mia famiglia si spostò da Torino e andò ad abitare in una casa in campagna. I miei primi tre anni di vita li ho passati immerso in un paesaggio naturale che è rimasto impresso nel mio inconscio e poi è riemerso in varie opere, soprattutto in quelle meno recenti. In seguito ci sono
«L’arte è messaggio di pace ed energia vitale. Non credo nei miracoli, ma ho sempre lottato per questo. Mi riconosco nell’idea di una comunità animata capace di dare spazio a un’estetica che abbia un rapporto diretto con le cose della vita»
stati i viaggi, e dunque i paesaggi esotici, le conchiglie sulla spiaggia, le immagini di mare con i gabbiani... All’inizio riuscivo a produrre Tappeti-Natura anche di dimensione molto grande (un metro per quattro spesso «calpestabili»), oggi non più (oggi la media è di circa 30 centimetri di lato, ndr). Ma l’intento dei miei tappeti sento che non è per nulla cambiato. Al di là del soggetto e dello sviluppo dimensionale, è sempre una natura ricreata tassello dopo tassello. Un’opera con cui entrare in relazione e vivere esperienze emozionali».
Come racconterebbe invece i suoi «Totem-Domestici», i suoi «VestitiNatura», i suoi «Sassi»?
«Il Totem-Domestico è una scultura in poliuretano espanso e legno, composta da tre pali primitivi a cui è appeso un grande masso mediante una corda quasi spezzata in un punto. Quando l’ho realizzata, nel 1964, il gioco consisteva nell’andarsi a posizionare sotto questo grande masso, che sembra oltremodo pesante e invece non lo è per nulla, e stare lì mentre la corda pare sfaldarsi irrimediabilmente, dunque con il timore di rimanere schiacciati dal peso del macigno. Nei primi anni Sessanta non si erano ancora aperti i nuovi orizzonti politici che invece si sono creati in seguito con il movimento studentesco e poi le lotte operaie portate avanti lungo tutti gli anni Settanta. Allora c’era un sentimento particolare che era quello della catastrofe, attesa come una vera rivoluzione, un azzeramento per poi ricominciare. Il Vestito-Natura è un tappeto in poliuretano espanso tutto da indossare, qualcosa che crea un tutt’uno con il corpo, che stimola un comportamento, che induce una performance. È dunque un’opera pensata come modo d’essere: tu la indossi e fai parte della natura. Nel 1967 ho presentato questi miei vestiti a Torino, al Piper Club, e li ho proposti insieme ai Tappeti-Natura proprio per sottolineare questa possibilità: un tappeto può essere usato come quadro, ma anche come seconda pelle. Ho prodotto i Sassi, nel 1967-1968, dopo essere entrato in contatto con l’azienda Gufram: un oggetto d’uso, un sedile ma al tempo stesso una scultura in poliuretano espanso verniciato, attraverso il quale l’arte poteva entrare nella quotidianità».
La mostra di Magazzino nasce da...
«Dal confronto con Elena Re. E dall’idea di mettere in luce il pensiero che sta alla base della mia ricerca, caratterizzato da un impegno ecologico e da un approccio relazionale. Questo è stato fatto approfondendo il tema del Tappeto natura, che è un po’ icona di tutto il mio lavoro che mi ha sempre accompagnato nel percorso artistico: ogni volta sentivo il bisogno di mettere un tassello dopo l’altro per costruire un paesaggio ideale».
Perché questa donazione?
«In questo momento di grave crisi e complessità che pesa sull’intero pianeta, volevo offrire il mio contributo a un’istituzione museale che stesse facendo un lavoro importante sul piano dell’impegno sociale e della coscienza civile, finalizzato a divulgare internazionalmente un messaggio di arte e vita. In Magazzino Italian Art Foundation ho visto questa capacità. È un periodo per me estremamente difficile e duro, ma penso di avere fatto la cosa giusta».
L’arte può essere utile contro la guerra e la pandemia?
«L’arte è messaggio di pace e al tempo stesso è energia vitale. Non credo nei miracoli, ma ho sempre lottato per tutto questo. Ancora oggi mi riconosco nell’idea di una comunità animata da un sentimento nuovo per l’arte. Come accade al Pav, una realtà dove si catalizza un’arte senza barriere e si sviluppano esperienze sulla dialettica natura-cultura per dare spazio a un’arte che abbia un rapporto diretto con le cose della vita. Ho cercato tutto questo in me, ma l’ho trovato sempre nel rapporto con gli altri».
Il suo sogno?
«Arte e vita, per tutti».