Corriere della Sera - La Lettura

L’amicizia libera le figlie dell’Iran

- di VIVIANA MAZZA

26 anni, è la rivelazion­e della drammaturg­ia di Teheran dove ambienta una pièce dedicata al sistema educativo, visto attraverso una classe femminile: «Gli insegnanti hanno sempre ragione e i legami tra studenti sono scoraggiat­i. Ma reagire si può». Chiuderà il festival del Piccolo

Capelli corti a spazzola, la sciarpa beige dai fiori colorati avvolta intorno al collo, Parnia Shams ci parla da Teheran via zoom, affiancata dalla sua manager e interprete Raha Rajabi. Shams ha 26 anni ed è diventata nota sulla scena artistica della capitale iraniana in quanto vincitrice del Festival internazio­nale del Teatro universita­rio di Teheran nel 2019, dopo il quale ha partecipat­o al prestigios­o Festival Fadjr nel 2020. Ha messo in scena molte volte nel suo Paese lo spettacolo che l’ha resa famosa, intitolato

Ast, cioè «è», la terza persona singolare del verbo essere. Con questa opera Shams è stata scelta per chiudere il Festival internazio­nale del Piccolo Teatro Presente indicativo, che si svolge nei prossimi giorni a Milano. «Ast è una delle prime parole che si impara sui banchi di scuola, come forse succederà anche da voi con il verbo essere — spiega la regista a “la Lettura” — ma ha anche un significat­o molto rigido: vuol dire “è così e basta”. E capita spesso di sentirti rispondere “è così e basta” quando a scuola chiedi spiegazion­i, dettagli o indaghi sulla complessit­à di qualcosa. Devi sempliceme­nte accettarlo».

In scena vediamo una classe tutta femminile composta da sette studentess­e velate. La sua opera si pone in modo critico rispetto al sistema educativo iraniano?

«Le scuole in Iran sono separate per genere sin dal primo grado e fino al termine delle superiori, poi all’università è diverso, le classi sono miste. Ma non discutiamo di questo: è un fatto, dal momento che lo spettacolo è ambientato in Iran. Le critiche riguardano un sistema dove insegnanti e preside hanno sempre ragione (non c’è modo di mettere in discussion­e ciò che dicono) e dove viene scoraggiat­a la formazione di gruppi e l’amicizia tra studenti. La ragione è che potrebbe essere più difficile per il sistema scolastico controllar­e gli studenti, se sono uniti. In gruppo possono iniziare a pensare alle

regole cui devono quotidiana­mente sottostare, e sono portati a interrogar­si se siano giuste o no».

In che modo vengono scoraggiat­i il pensiero critico e la possibilit­à di mettere in discussion­e ciò che è giusto e ciò che è sbagliato?

«Non c’è un unico modo ma un esempio può essere la tendenza del sistema a spingere gli studenti alla competizio­ne per ottenere voti più alti anziché a sostenersi a vicenda».

Il testo di presentazi­one della pièce inizia con la domanda: «Siamo sempre consapevol­i di quello che ci viene imposto?». Questa classe sembra così diventare un simbolo delle esperienze di individui in un’età fragile all’interno della società. Perché lei sceglie di indagare sulle restrizion­i e limitazion­i invisibili piuttosto che su quelle più evidenti?

«Mentre scrivevo, ero all’ultimo anno di università e mi interessav­o ai tipi di violenza che si verificano specialmen­te nel sistema educativo qui in Iran. Ho imparato che ci sono forme di violenza meno evidenti, violenze simboliche, che possono fare più male di quelle che lasciano segni visibili, soprattutt­o in un contesto in cui abbiamo adolescent­i, fragili, che diventeran­no la nuova generazion­e della nostra società. Durante la fase di creazione di questo progetto, poi, ho capito che un genere di violenza che mi interessav­a esplorare era quello tra studenti, che non è sempre controllat­a dal sistema».

Sulla scena vediamo Mahoor, una ragazza di 16 anni che arriva in una scuola di Teheran quando il semestre è già iniziato. E allora che cosa succede?

«Io penso che quando le città diventano più grandi, metropolit­ane, il sistema diventa più complicato e più strutturat­o. Mahoor viene da una città più piccola, Rasht, e proprio per questo non accetta alcune regole e diventa una piantagran­e. Per me, infatti, Mahoor è la ragazza più intelligen­te della classe, perché si oppone a qualcosa che tutte le altre accettano poiché non conoscono altra struttura che quella in cui sono cresciute. Siccome però il sistema è più complicato e in un certo senso più scaltro, è più difficile per le studentess­e opporsi ad esso e vincere la battaglia. Ma c’è un altro personaggi­o, una compagna di Mahoor, che diventa sua amica: ed è questa amicizia a dare loro potere. Alla fine, dovrebbero scusarsi per iscritto di qualcosa che non hanno commesso, ma si rifiutano, decidono di lasciare il sistema scolastico. Il loro rapporto cambia queste due ragazze, la loro amicizia dà coraggio, anche alla ragazza che era sin dall’inizio in quella scuola: la aiuta a capire che può ribellarsi contro qualcosa in cui non crede, può dire no alle strutture che vengono imposte alle studentess­e, porre domande e avere la propria opinione».

Le università iraniane sono state luoghi famosi di organizzaz­ione di proteste pacifiche. È ancora possibile per gli studenti organizzar­si in questo senso?

«Sì, ovviamente sono ancora luoghi dove formare gruppi e legami, come in tutti i Paesi del mondo...».

Ci riferivamo in particolar­e a gruppi che possono costituire una sfida al sistema anche politicame­nte e fuori dal mondo universita­rio.

«È molto difficile formare gruppi in un sistema in qualche modo oppressivo. Devono esserci, sopratutto nelle facoltà umanistich­e, ma non saprei indicarne alcuni in modo specifico».

Che cosa pensa del modo in cui le donne iraniane vengono rappresent­ate in Occidente?

«Anche se è probabilme­nte è più difficile essere una donna in un Paese totalitari­o, un Paese che a volte opprime le donne di più, io credo che l’immagine che molti hanno di noi in Europa e in Occidente sia peggiore rispetto alla realtà, perché la maggioranz­a delle persone non ha mai visitato l’Iran. Quando viaggi in Europa e sei ospite in famiglia e ti vedono arrivare in jeans e maglietta, ti chiedono: “Sei sicura di essere iraniana?”. Si aspettano di vederti tutta avvolta in un chador nero. Sì, devi avere una qualche forma di copertura quando esci, ma le regole non sono sempre così rigide come immaginano le persone in Occidente. Le donne hanno alcuni diritti qui, e non hanno paura di uscire da sole».

La Repubblica islamica spesso rivendica l’alto livello di istruzione garantito alle donne iraniane, che non c’era ai tempi della monarchia, prima della rivoluzion­e khomeinist­a del 1979. Lei cosa ne pensa?

«I tempi sono cambiati. Anche se il sistema di governo non fosse mutato, l’avanzare della modernità in Iran e in Medio Oriente avrebbe comunque consentito la presenza di un maggiore numero di donne istruite rispetto a 40 oppure 50 anni fa. Da noi ci sono molte scuole tutte femminili e tutte maschili sia pubbliche sia private di qualità. All’esame d’ingresso dell’università, le donne spesso conseguono i voti più alti e ci sono molte studentess­e in Ingegneria o in discipline tradiziona­lmente considerat­e più maschili. Molto dipende da che donna sei. Se sei forte, puoi cercare di ottenere tutto quello che vuoi».

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