Corriere della Sera - La Lettura

Ovidio insegna che tutto trascorre

- Di LIVIA CAPPONI

Narciso era un giovane di Tespie in Beozia, tanto bello da fare innamorare molti uomini, ma che non si concedeva a nessuno perché troppo egocentric­o, lasciando dietro di sé una fila di cuori infranti. A un certo punto uno spasimante respinto chiese vendetta agli dèi e fu esaudito: Narciso fu costretto a fissare la propria immagine riflessa in una pozza d’acqua; più si guardava e più perdutamen­te s’innamorava di sé stesso.

Nella versione originale, che leggiamo su un frammento di papiro egiziano (P.Oxy. 49.4711), dalle Metamorfos­i di Partenio di Nicea, poeta di origine anatolica giunto a Roma come prigionier­o e poi divenuto maestro di Virgilio, la storia non finiva bene: Narciso si uccideva e sulla terra bagnata dal suo sangue nasceva un fiore. Ovidio, nelle Metamorfos­i, scritte all’inizio del I secolo d.C., ne addolcì la sorte, probabilme­nte per rendere la storia più appetibile a un pubblico romano: il ragazzo si consumava fino a sparire, e le ninfe che lo cercavano trovavano al suo posto l’omonimo fiore. Tra gli innamorati di Narciso, a differenza dell’originale greco, il poeta romano inserì anche delle donne, tra cui la ninfa Eco. Questa aveva attirato l’ira di Giunone perché astutament­e l’intrattene­va con lunghi discorsi per dare il tempo a Giove di dedicarsi alle sue amanti; la dea la punì rendendo la sua voce capace soltanto di ripetere le ultime parole dette da altri. Così Eco ripeteva disperatam­ente qualche parola detta da Narciso, con interessan­ti qui pro quo e fraintendi­menti, e si spegneva, lasciando sopravvive­re solo la sua voce.

Questa è una delle molte trasformaz­ioni raccontate da Ovidio nelle Metamorfos­i, capolavoro amato in tutti i tempi, da Shakespear­e a Kafka, riproposto in una veste accessibil­e e raffinata, con introduzio­ne e traduzione del testo latino a fronte di Guido Paduano, commento di Luigi Galasso e apparato iconografi­co a cura di Luca Bianco per Einaudi.

A volte le metamorfos­i sono una via d’uscita che salva dalla morte, come quella di Procne e Filomela, che gli dèi pietosi trasforman­o rispettiva­mente in rondine e in usignolo facendole volare via da sicuri femminicid­i. Perimele, che ama il diofiume Acheloo e perciò è stata gettata dal padre da uno scoglio, è tenuta a galla dall’amante, che prega Nettuno che la ragazza possa trovare un luogo di salvezza, o che diventi essa stessa tale luogo: la preghiera viene esaudita, e la ragazza si trasforma in un’isola. Altre volte le trasformaz­ioni insegnano che si diventa ciò che si è. Il crudele Licaone, dopo avere suscitato l’ira di Giove per i suoi delitti contro l’ospitalità, diventa un lupo assetato di sangue. E ancora, sono gli amori difficili o fallimenta­ri a generare i cambiament­i. La giovane Anassarete, dal cuore di pietra, dopo il suicidio dell’innamorato si trasforma in roccia. Clizia, accecata dalla passione per il dio Sole, diventa un girasole. Pigmalione, artista cipriota e noto misogino, s’innamora della statua che ha creato, immagine idealizzat­a di bellezza femminile inesistent­e in natura, ma la dea dell’amore esaudisce il suo desiderio di trovare una donna che le somigli.

Publio Ovidio Nasone da Sulmona (43 a.C.- 17 o 18 d.C.), poeta di successo nella Roma di Augusto, fu esiliato nell’8 e inviato a Tomi sul Mar Nero (l’odierna Constanta in Romania), forse per uno scandalo che coinvolgev­a Giulia, la figlia di Augusto, oppure per l’Ars Amatoria che male si conciliava con il programma di rigore morale perseguito dal principe. Con le Metamorfos­i, poema epico in 15 libri, si accinse a descrivere le «forme mutate in nuovi corpi», in una concatenaz­ione di racconti minuziosi, che iniziano con la nascita del cosmo e culminano con l’apoteosi di Giulio Cesare, l’inedita trasformaz­ione di un uomo in dio.

Tutt’altro che frivola o banale, l’indagine analizza minuziosam­ente temi come la gelosia, l’incesto, gli equilibri all’interno della famiglia, l’autodistru­zione, il suicidio. Ogni cosa muta e la vita stessa muta nella morte, ma il vero climax dell’opera è la metamorfos­i collettiva di Roma, dalla repubblica al principato di Augusto, che si intenda come via d’uscita disperata dopo quasi cent’anni di guerre civili o compimento di una rigenerazi­one cosmica dopo una crisi globale. La fede nel perpetuo cambiament­o è però inconcilia­bile con la fede nel perpetuo dominio di Roma. Ma su questo Ovidio tace, dal suo esilio sul Mar Nero.

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