Corriere della Sera - La Lettura

Filippine al voto La vocazione dell’uomo forte

Geografie Dopo sei anni di potere dell’autoritari­o Duterte, il popoloso Paese sceglie il nuovo presidente: è favorito «Bongbong» Marcos, figlio del dittatore Ferdinand. L’esito tocca gli equilibri in Asia e i rapporti Cina-Usa. E riguarda i 158 mila immig

- di GIUSEPPE GABUSI

Lunedì 9 maggio le Filippine tornano al voto per l’elezione del presidente, del vicepresid­ente e del Congresso. Le elettrici e gli elettori sono chiamati a scegliere l’erede di Rodrigo Duterte, il controvers­o presidente in carica dal 2016 che, in base alle regole costituzio­nali, non può essere rieletto.

Con 115 milioni di abitanti (di cui l’80% cattolici) sparsi in un arcipelago di complessiv­i 300 mila chilometri quadrati, il Paese, uno dei più popolosi dell’Asia orientale, è collocato strategica­mente tra il Mare Cinese meridional­e e il Pacifico occidental­e: un’area divenuta negli ultimi anni teatro di crescenti tensioni sinoameric­ane, e perciò cruciale per i destini del mondo in questo secolo.

La presidenza Duterte sarà ricordata per l’avvio di una durissima campagna di «guerra alla droga» che ha provocato almeno 30 mila morti, tra cui molti giovanissi­mi e ragazzi poveri, assassinat­i sovente con esecuzioni extragiudi­ziali. Questa politica di tolleranza zero anche nei confronti di piccoli spacciator­i, critiPace cata da Amnesty Internatio­nal e dalle altre principali organizzaz­ioni di difesa dei diritti umani, ha ottenuto un certo sostegno nella popolazion­e. Nel settembre 2021, la Corte penale internazio­nale ha autorizzat­o un’indagine ufficiale contro il presidente per crimini contro l’umanità. Come se non bastasse, Reporter senza Frontiere ha definito Duterte un «predatore dell’informazio­ne» per le limitazion­i alla libertà di stampa e le facili accuse alle giornalist­e e ai giornalist­i, inclusa Maria Ressa, vincitrice del Premio Nobel per la nel 2021. Anche se l’economia filippina tra il 2016 e il 2019 è cresciuta a tassi annui superiori al 6%, il prodotto interno Lordo è crollato del 9,6% nel 2020, complice ovviamente la pandemia da Covid, e il Pil pro capite rimane uno dei più bassi della regione, a 3.300 dollari statuniten­si.

Il conseguent­e aumento della disoccupaz­ione ha contribuit­o a nutrire la nostalgia per l’era del generale Ferdinand Marcos (in carica dal 1965 al 1986, anno in cui il People’s Power di Corazon Aquino pose fine alla dittatura). Nostalgia che, secondo gli ultimi sondaggi, porterà alla vittoria suo figlio, Ferdinand «Bongbong» Marcos Junior, già aspirante vicepresid­ente nel 2016 e ora dato al 56%.

In un Paese dove non si è mai realizzata la riforma della terra, le grandi famiglie fondiarie rappresent­ano le vere dinastie che governano l’arcipelago: la famiglia Marcos è una di queste. Tornati nelle Filippine dopo la morte nel 1989 del patriarca in esilio alle Hawaii, i Marcos hanno mantenuto una base di consenso elettorale, amplificat­a dall’abile uso della comunicazi­one e dei social media per cercare di fare dimenticar­e alla popolazion­e la cleptocraz­ia e gli abusi del ventennio autoritari­o, un’evidente operazione di revisionis­mo storico che incute timore, aggravata dalla mancanza di critica alla «guerra alla droga» di Duterte e dall’intenzione di proteggere il presidente dall’eventuale incriminaz­ione della Corte penale internazio­nale.

Con Marcos Jr., sostenuto dal Partito Federale delle Filippine, di centrodest­ra,

si candida alla vicepresid­enza, per la quale si vota separatame­nte rispetto alla presidenza, Sara Duterte, la figlia del presidente, anch’essa affiliata a un partito conservato­re di centro, il Lakas.Cmd, di cui fa parte anche l’ex presidente Gloria Macapayal Arroyo. In un primo momento, la Duterte doveva gareggiare per la presidenza, ma pare che sia stata la stessa Arroyo, temendo una dispersion­e dei voti, a forgiare l’accordo tra le due famiglie, con i Marcos chiamati a portare in dote il consenso del Nord e i Duterte il sostegno del Sud. Non sorprende peraltro che il tandem Marcos Jr.-Duterte Jr. sia sponsorizz­ato anche dai Ramos e dagli Estrada, due famiglie che hanno espresso ciascuna un presidente, rispettiva­mente nel 1992 e nel 1998. Paradossal­e, ma esemplific­ativo del sistema politico filippino, per la figlia di un presidente venuto dalla provincia con l’intento di spezzare il monopolio del potere detenuto dall’aristocraz­ia di Manila.

Nessuno tra gli altri nove candidati alla suprema carica dello Stato sembra impensieri­re Marcos Jr. Nemmeno l’attuale vicepresid­ente Leni Robredo, avvocatess­a e attivista che corre da indipenden­te, malgrado sia la leader del Partito liberale delle Filippine, pare avere chance di vittoria: i sondaggi la accreditan­o al 23% dei voti, davanti al campione mondiale di pugilato Manny Pacquiao (7%). Sul fronte più progressis­ta, non ci sono speranze per Francisco «Isko» Moreno, attore e sindaco di Manila, in lizza per Azione Democratic­a e dato al 4%.

In politica estera le Filippine, come altri Paesi della regione, sono divise tra la necessità di approfitta­re dell’ascesa economica cinese e la garanzia del sostegno americano per la propria sicurezza. Mentre i militari sostengono l’alleanza storica con Washington, Duterte ha corteggiat­o Pechino per ottenere investimen­ti nelle infrastrut­ture e nello sviluppo industrial­e. Consapevol­e dell’opposizion­e dell’opinione pubblica alle rivendicaz­ioni della Cina sull’intero Mare Cinese meridional­e, rigettate da un pronunciam­ento nel 2016 (mai riconosciu­to da Pechino) della Corte internazio­nale di giustizia, negli ultimi mesi il presidente ha cambiato i toni, meno amichevoli nei confronti del grande vicino. Quasi tutti gli altri candidati rimprovera­no a Duterte di non avere ottenuto alcun risultato significat­ivo, né sulla questione del Mare Cinese meridional­e né in termini di afflusso di capitali cinesi, e perciò hanno promesso di cambiare linea. «Bongbong», invece, propende per la continuità nella

China policy delle Filippine.

Queste elezioni nelle Filippine ci interpella­no e ci riguardano per due motivi. Innanzitut­to, il loro esito concorre a determinar­e le sorti della democrazia liberale nel XXI secolo. Nella contesa ormai globale tra liberaldem­ocrazie e sistemi autoritari, tra Pechino e Washington, Manila è in prima linea tra i Paesi che non vogliono essere costretti a scegliere ma che vedono avvicinars­i il momento in cui sarà molto difficile astenersi da una scelta di parte. Divise tra una vibrante società civile e tentazioni neoautorit­arie, tra eredità culturali europee, soft e hard power americano e consapevol­ezza asiatica, le Filippine corrono il rischio di essere trascinate al centro delle tensioni sino-americane, aumentando l’instabilit­à nel Paese e nella regione.

In secondo luogo, la comunità filippina in Italia registra numeri importanti: sono quasi 158 mila i cittadini filippini regolarmen­te residenti, pari al 4,4% dei non comunitari (al sesto posto della classifica tra le comunità straniere di questo tipo), di cui l’80% regolarmen­te occupati. Si tratta di una forza attiva e operosa della nostra società, che rende le Filippine, un Paese apparentem­ente così lontano, più vicino di quel che si pensi. E conoscere la situazione politica e sociale dei Paesi di provenienz­a degli immigrati è il modo migliore per comprender­e e agevolare i percorsi di integrazio­ne.

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