Corriere della Sera - La Lettura
Democrazia vs social È la sfida di Manila
Parla la regista Ramona Diaz. Nella capitale gira la nuova pellicola, un seguito del docu-film dedicato alla Nobel Maria Ressa. «Capiremo se torniamo indietro o andiamo avanti»
«Queste elezioni rappresentano un momento esistenziale per le Filippine. Da questo voto emergerà che tipo di futuro vuole avere il Paese. C’è un erede dei Marcos dato per favorito: dopo sei anni di Duterte, vogliamo tornare indietro o andare avanti?», chiede Ramona Diaz al telefono da Manila dove sta girando il suo nuovo film, ancora senza titolo. «È — anticipa a “la Lettura” — una continuazione di A Thousand Cuts, il docufilm sulla giornalista filippina Maria Ressa, e sul suo sforzo quotidiano di difendere, insieme al suo team, la libertà di stampa davanti a un presidente che ha minacciato pubblicamente di morte i reporter “scomodi”». Ma è anche una storia globale, quella dell’impatto della disinformazione sulla democrazia. «Maria aveva suonato l’allarme già nel 2016. Quando la incontrai, sei anni fa, per iniziare le riprese, una delle prime cose che mi disse fu che Facebook stava erodendo la democrazia e loro erano intenti a ripararla. Vedremo se dopo sei anni ci sono riusciti, vedremo se la gente crede ancora nel revisionismo e nel negazionismo oppure se ora è in grado di riappropriarsi degli spazi pubblici e della sua storia».
Efficace l’avvertimento di Maria Ressa, fondatrice di «Rappler», il portale di informazione critico verso Duterte, insignita del premio Nobel per la Pace nel 2021 proprio per la sua lotta alla disinformazione: «Stiamo assistendo alla morte per dissanguamento della nostra democrazia ferita da un migliaio di tagli. Uno dopo l’altro, quando questi tagli si accumulano, diventi così debole che rischi di soccombere». Il monito risuona in A Thousand Cuts, che proprio da questo richiamo prende il titolo. Un documentario sulla democrazia agonizzante e sui tentativi di rianimarla. Nel film si vede Duterte che avverte Maria Ressa: «Non è che perché sei una giornalista stai al riparo dall’essere uccisa». Parole minacciose simili a quelle pronunciate da Putin lo scorso ottobre contro Dmitrij Muratov, il direttore del giornale di opposizione «Novaja Gazeta» (quello per cui lavorava Anna Politkovskaja), insignito del Nobel insieme a Ressa: pochi giorni dopo l’assegnazione, lo zar s’è premurato di fargli presente che non avrebbe potuto usare il premio come uno scudo per fare quello che voleva.
Reporter nel mirino degli uomini «forti». Maria Ressa e i colleghi di «Rappler» lo sono da quasi sei anni, da quando indagano sulla sanguinaria lotta alla droga, condotta dal presidente-giustiziere: una lunga scia di sangue con decine di migliaia di sospetti spacciatori e consumatori di droga uccisi (seimila dichiarati dal governo, almeno tre volte tanto per le associazioni dei diritti umani). «Una guerra ai poveri», si sente Ressa scandire in A Thousand Cuts.
Ramona Diaz, lei ha esordito nel 2003 con il pluripremiato «Imelda» sulla controversa moglie del dittatore Marcos. Nel film che sta girando ora c’è il figlio, Marcos Jr, favorito per il dopo Duterte. Un ritorno al passato?
«Credo che la partita non sia ancora chiusa... quando la sua sfidante Leni Robredo (l’avvocata per i diritti umani, oggi vicepresidente, ndr) si candidò per il Congresso, i sondaggi le davano consensi risicati, ma alla fine la spuntò. Così pure nel 2016, quando era in lizza contro Marcos jr per la vicepresidenza: anche allora nelle rilevazioni era indietro, poi vinse. Da settimane Robredo è in rimonta, ma il sostegno per lei potrebbe anche andare oltre quei numeri. Leni riempie le piazze come una rockstar, con discorsi strepitosi che appassionano la gente».
Dai sondaggi emerge anche che gran parte dei supporter di Marcos jr sono under 30, neppure nati quando il padre impose la legge marziale. La considera una generazione perduta?
«Il potere del padre è finito nel 1986, quindi ci sono più generazioni che non hanno mai vissuto sotto la legge marziale. Che non da tutti tra l’altro viene considerata un male in questo Paese. Per alcuni quel periodo è stato una sorta di età dell’oro. Se chiedi i motivi, non ti sanno rispondere, si limitano a elogiare le infrastrutture costruite. E se chiedi loro conto degli abusi e della mancanza di libertà di espressione, annaspano. Un po’ come fanno da voi in Italia i sostenitori del fascismo. Ma più delle testimonianze di genitori e nonni, a infiammare le nuove generazioni è la grande disinformazione diffusa sui social media. Dove circola una narrazione che modifica la storia, quando non la cancella».
Come fa a essere così efficace?
«Per il mio film sto seguendo il fronte dei Marcos sui social, sono agguerritissimi. Ed è pesca grossa qui. I filippini sono i primi utilizzatori di social al mondo: 11 ore al giorno in media. Dal 2013 Facebook consente in questo Paese di navigare gratuitamente e così oggi quasi il 100% qui ha un account Facebook. La stragrande maggioranza di questa popolazione non può permettersi di comprare troppi dati, peraltro molto cari qui, quindi per loro Facebook coincide con il web. E che notizie leggono su Facebook? Quelle dei feed, determinati dagli algoritmi che privilegiano i contenuti incendiari. È una echo chamber, non vedi mai nulla fuori da lì... Nelle Filippine un algoritmo determina quello che il 97% degli utenti vede».
Che cosa l’ha più sorpresa durante le riprese di questa contestata campagna presidenziale?
«La gente, i volontari, c’è un movimento pro democrazia che si rafforza con il passare dei giorni. L’altra settimana per esempio eravamo in Pampanga, provincia settentrionale, dove Leni Robredo aveva perso nel 2016: ora al suo comizio c’era un numero incredibile di persone, almeno 20 mila. E questo nonostante sia scesa in campo anche l’ex presidente Gloria Arroyo ad appoggiare apertamente il tandem Marcos jr-Sara Duterte (la figlia dell’attuale presidente,
ndr). Ci sono un’energia, una vitalità che si manifestano oltre i sondaggi... Questi comizi sembrano concerti rock. La gente si mobilita in difesa della democrazia anche online. Per esempio sono aumentati i supporter di Maria Ressa che quando leggono fake news intervengono sui social, smentiscono, la difendono. Il mio nuovo film documenta il risveglio di un popolo».
In «A Thousand Cuts» Ressa dice: «Non sappiamo neanche se possiamo fidarci dei poliziotti che ci proteggono». Si è mai sentita in pericolo al suo seguito?
«Lei è una persona sempre sul bordo di un precipizio, ma siamo stati con lei ovunque: in prigione, in albergo, nel suo appartamento. Ero molto preoccupata per la mia troupe locale. Io, una volta terminate le riprese, torno a casa mia negli Stati Uniti. Loro restano qui e il pericolo può arrivare anche a film finito. Ma li ho messi in guardia sui rischi, prima e durante le riprese. Quando l’hanno arrestata ho detto: “Se volete potete lasciare, e non penserò male di voi”. Nessuno lo ha fatto, sono tutti convinti che sia una buona storia da raccontare. Ogni giorno si fa il punto: possiamo lavorare? Ci sono insidie? In realtà non riesco nemmeno a pensare ai pericoli perché so che se non girassi questo film, lo rimpiangerei tutta la vita. Il rimpianto peserebbe più di qualsiasi pericolo immaginato o reale».
In effetti i rimpianti sono l’altra faccia della paura. E la paura è l’arma più in voga nei regimi.
«Nel giugno 2020 Maria è stata condannata per diffamazione e rischia fino a sei anni di carcere. Lei è ricorsa in appello. “Vogliono metterti paura. Ma se non usi i tuoi diritti, li perderai’, ha detto. È così».