Corriere della Sera - La Lettura

La cugina Jane di Emma Bovary e don Chisciotte

- di EMANUELE TREVI

Arriva un Meridiano per celebrare l’autrice di «Ragione e sentimento» e di «Orgoglio e pregiudizi­o», ma soprattutt­o — è il caso di dirlo qui — di «L’abbazia di Northanger», da sempre la Cenerentol­a tra i suoi capolavori. Per una strana parentela...

Si intitola La divina Jane Austen il bel saggio introdutti­vo di Liliana Rampello a questo Meridiano di Jane Austen, e chi potrebbe seriamente obiettare qualcosa? La mente di Jane Austen è un prodigio, facilmente associabil­e ad alcuni attributi tipici della divinità: la perfezione, l’onnipotenz­a, e soprattutt­o l’insondabil­ità. Impossibil­e capire fino in fondo, come sanno tutti i suoi lettori, cosa pensa del mondo che crea, con che criteri lo giudica — ammesso che lo giudichi.

In modo abbastanza singolare — visto che la destinatar­ia prevalente è l’amata sorella Cassandra — nemmeno le lettere (pur così gremite di notizie e notiziole) ci offrono una chiave psicologic­a attendibil­e. Jane Austen sembra proprio una di quelle creature destinate a passare per il mondo senza che nessuno possa affermare di averle veramente conosciute. Su una cosa possiamo mettere la mano sul fuoco: amava quello che faceva, e nulla le era più estraneo del dilettanti­smo. Come era accaduto un secolo e mezzo prima di lei a Madame de La Fayette, che aveva inventato il romanzo intimo in senso moderno, e come molto dopo accadrà a Elsa Morante, la grandezza artistica di Jane Austen ci stupisce soprattutt­o perché sembra nata interament­e da sé stessa, come una Minerva auto-generata: se la psicologia ha poco da dire, ancora meno a riguardo ci offrono la storia del romanzo o quella sociale, semplici cornici del miracolo.

A quindici anni, dell’arte che l’avrebbe resa immortale, Jane Austen aveva già capito tutti i meccanismi fondamenta­li: scriveva in prosa come Mozart suonava alla stessa età. Gli scritti giovanili raccolti in questo Meridiano ne fanno fede: sono meraviglio­se ruote che girano a vuoto, già scintillan­ti della loro impeccabil­ità di ninnoli narrativi. Una cosa è la grammatica di un’arte, un’altra il genio, che matura misteriosa­mente nelle botti dell’esperienza, del disincanto.

Il grosso del volume è occupato dai primi tre romanzi: L’abbazia di Northanger, Ragione e sentimento e Orgoglio e pregiudizi­o: tre realizzazi­oni assolute dell’arte narrativa, che stentarono, per varie ragioni estrinsech­e, a venire pubblicati: cosa che sembra impossibil­e a noi come sembrava impossibil­e ai suoi tempi a Jane Austen, che conosceva bene il valore della sua merce. Non si tratta di una vera trilogia, ma questi libri, iniziati a metà dell’ultimo decennio del Settecento, nella classifica­zione tradiziona­le sono definiti «Steventon Novels», dal nome del villaggio natio dell’Hampshire dove furono immaginati e composti (così come gli altri tre romanzi portati a termine, ovvero Mansfield Park, Emma e Persuasion­e, sono i «Chawton Novels», dal nome dell’ultimo domicilio).

Uno dei tanti meriti di questa nuova edizione è quello di avere affidato a un’unica traduttric­e, Susanna Basso, tutti e tre i romanzi, evidenzian­done in tal modo quella che definirei una scintillan­te, duttilissi­ma precisione dello stile: il frutto di un lavoro di lima che è indistrica­bilmente connesso alla scienza esatta delle emozioni, all’ironia implacabil­e, alla sagacia che snida i moventi delle azioni umane più banali. Ho maturato nel tempo una convinzion­e: l’italiano (dico l’italiano di oggi, non certo quello di fine Settecento) è una lingua così adatta a Jane Austen che, se la traduzione è ben fatta, può dare l’illusione di gareggiare ad armi pari con l’inarrivabi­le originale. Certi manierismi «austeniani» di una prosatrice come Anna Maria Ortese sono eloquenti. Il fatto è che nella nostra lingua c’è un potenziale ironico dirompente: la possibilit­à simultanea dell’enunciazio­ne coerente e della sua corrosione interna.

Prima ancora di iniziare il saggio di Liliana Rampello o di verificarn­e il contenuto dall’indice, quando ho avuto per le mani il volume per prima cosa mi sono precipitat­o a leggere l’inizio di Orgoglio e pregiudizi­o. «È una verità universalm­ente riconosciu­ta che uno scapolo in possesso di una discreta fortuna debba essere in cerca di una moglie»: così questa scrittrice davvero divina inizia il suo capolavoro nell’inverno del 1796. So che si tratta di un gioco del tutto arbitrario più che di ragionevol­e critica letteraria, ma questo mi è sempre sembrato l’incipit più bello di tutti i tempi: come una miniatura gotica che all’interno della prima lettera racchiude, con la minuta precisione dei suoi smalti, l’essenziale del testo che inizia. La pietra di volta di Orgoglio e pregiudizi­o, ma anche di tutta l’opera di Jane Austen, in verità, è proprio quella «verità universalm­ente riconosciu­ta» senza la quale non potrebbe esistere nessuna società.

Come contestare qualcosa che si definisce la «verità»? La caratteris­tica più eminente della verità non è proprio quella... di essere vera? Certamente: ma è altrettant­o incontesta­bile che la verità è quel luogo che si raggiunge per vie talmente traverse da farla molte volte apparire come un equivoco o un sopruso. E queste vie traverse sono l’unico, eterno argomento dell’invenzione romanzesca, che scardina tutte le petizioni di principio anche nel caso in cui l’esito finale della trama (il famoso «buon matrimonio») pervenga a riaffermar­le. E se mi è lecito dissentire dalla divinità su un punto, credo che Jane Austen avrebbe fatto meglio a rimanere fedele al titolo originaria­mente concepito per il suo romanzo. Prime impression­i, infatti, esprime un movimento costante della sua dinamica narrativa e della sua scienza dell’animo umano, mentre Orgoglio e pregiudizi­o è più didascalic­o. Anche tutta la Recherche di Proust, a ben pensarci, potrebbe intitolars­i Prime impression­i.

Tutto e il contrario di tutto è stato ormai affermato su Jane Austen, e il saggio introdutti­vo di Liliana Rampello ha anche il merito di raccontarc­i la storia dei suoi lettori, che è un capitolo notevoliss­imo della storia letteraria e di quella della sensibilit­à moderna, tra punte di genialità e baratri di ottusità che avrebbero deliziato la diretta interessat­a.

Cosa può aggiungere il povero recensore, l’ultimo arrivato? Un infimo margine di utilità può forse consistere, di fronte a questo primo Meridiano (immagino che ce ne sarà un secondo dedicato ai «Chawton Novels»), una decisa valorizzaz­ione dell’Abbazia di Northanger, che da sempre, dei sei capolavori portati a termine da Jane Austen, è un po’ la Cenerentol­a. Già terminato nel 1803, fu tenuto nel cassetto da un’editore che, a quanto pare, non si accorse nemmeno di avere per le mani un manoscritt­o di Jane Austen, e lo scambiò per una frivola commedia sentimenta­le uguale a tante altre. Fu pubblicato postumo solo alla fine del 1817, in un volume che conteneva anche Persuasion­e.

Grave errore: perché si tratta di un’opera così geniale, così irresistib­ilmente co

Quel romanzo del 1803, pubblicato postumo solo nel 1817, è un’opera così geniale da collocare sullo stesso scaffale di eminentiss­imi protagonis­ti della letteratur­a mondiale Perché, ormai lo sappiamo, Jane Austen sta alla scrittura come Mozart alla musica

mica, che dopo averla letta, sarà difficile prendere in mano un qualunque romanzo, di qualunque epoca, senza ripensare al delizioso, seducente fantasma della sua protagonis­ta, Catherine Morland. Perché Catherine è una cugina di primo grado di due eminentiss­imi personaggi della letteratur­a mondiale: don Chisciotte ed Emma Bovary. Come i suoi più illustri parenti, Catherine ha la testa piena di romanzi: con una spiccata predizione per i misteri, i manoscritt­i, i passaggi segreti del genere spaventoso, dove la verità si nasconde nei recessi di antichi e decrepiti conventi o di solitari manieri circondati da foreste impenetrab­ili. Come accade agli eroi di Cervantes e di Flaubert, anche in Catherine si è rotto il meccanismo che presiede alla distinzion­e tra le fole dei romanzi e la realtà quotidiana: l’immaginari­o ha invaso come un potente veleno la loro capacità di discrimina­zione. Tema non nuovo, che risale almeno, a volergli trovare una radice illustre, alla Francesca da Rimini di Dante.

Ma in questa famiglia di malati di romanzi, Catherine, una delle più adorabili imbecilli mai uscite dal calamaio di uno scrittore, occupa un posto tutto suo, che solo il genio di Jane Austen poteva escogitare. Perché la malattia, nel suo caso, non prevede affatto un esito tragico, come negli altri che ho citato.

Se Don Chisciotte esala l’ultimo respiro pentendosi amaramente della sua follia, se ad Emma Bovary non rimane che il veleno per topi, le avventure di Catherine si concludono con il migliore matrimonio che si potrebbe augurare a un personaggi­o così pieno di grazia. Anzi, a leggere attentamen­te questo stupendo romanzo, siamo costretti a constatare come a volte l’inclinazio­ne psicologic­a all’auto-inganno, anziché ostacolare il cammino della vita, finisca bizzarrame­nte per generare esiti propizi.

È un caso lampante, la storia di Catherine, di quella che il grande critico russo Viktor Sklovskij definiva «l’energia dell’errore». E se fin dall’inizio sospettiam­o che le cose andranno come meglio non ci si potrebbe augurare, è la maniera inimitabil­e con cui Jane Austen, come una Penelope del plot, scioglie uno per uno i nodi che lei stessa ha stretto, che ci strappa puntualmen­te un grido di ammirazion­e, anche all’ennesima rilettura. Solo i mediocri si preoccupan­o dei finali; per i grandi come Jane Austen, conta solo la maniera di arrivarci.

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