Corriere della Sera - La Lettura
Libertà è sapere dove non vuoi stare
A settantaquattro anni una donna fa sparire le sue tracce, lasciando attonito il marito. È il prezzo — che fa pagare ai familiari — del desiderio di bastare a sé stessi, come racconta nel suo primo romanzo
Per certi aspetti suona persino riduttivo quel titolo, La fuga di Anna, dato da Mattia Corrente al suo romanzo d’esordio. Perché è vero che il filo rosso su cui scorre il romanzo è la scomparsa da casa che Anna mette in atto a 74 anni e dopo cinquant’anni di matrimonio; così come su quel filo si muoverà la rincorsa del marito Severino; ma è soprattutto vero che, alle spalle di quella decisione, sta tutta una vita, quella di Anna, in fuga da sé stessa, da un suo sentire e da una promessa fatta al padre Peppe.
Peppe a sua volta, anni prima, aveva abbandonato la moglie Serafina e le gemelline Nina e Anna. Né, queste, sono le sole fughe. Anzi, pare proprio un Dna familiare quello dell’allontanamento da casa, dato che non diversamente si era comportato Antonio, il figlio di Anna, proprio per «essere me stesso» e sottrarsi a un «amore implacabile» che si fa prigione, via da una madre che nei confronti del figlio contraddice quanto avrebbe voluto per sé stessa. Ne viene un romanzo abilmente orchestrato da Corrente che si snoda su più piani: sia vocali sia temporali, sostenuto da una scrittura elegante e ben mossa a ridosso delle pronunce, e con uso sapiente quanto essenziale del dialetto. Perché tre sono le prospettive del racconto: due affidate a io narranti, ossia quello di Peppe da un’isola sperduta e «piccola, una minuscola Sicilia vuota di gente», tra il 1959 e il 1965, lavorando in una cava di pietre e portandosi appresso un rimorso che viene affidando a un diario; e quello odierno dell’ottantenne Severino, il marito di Anna «costretto a una solitudine che non riesco ad accettare», ripreso nell’attraversamento della propria vita ripercorrendo i luoghi nei quali ha convissuto con Anna a un anno di distanza dalla scomparsa, in un fitto dialogo immaginario con lei.
Quanto all’altra prospettiva, in terza persona, si snoda in un autentico passaparola a incastri coi due quadri tracciati dagli io narranti; ed è la vicenda familiare di Anna, dalla nascita inaspettata, nascosta dietro la gemellina, all’infanzia con lei e la madre, ai giochi con quel padre Peppe, «l’unico uomo che hai amato per davvero» e che è venuto spiegandole «la libertà a modo suo e poi l’ha messa in pratica rovinando le vite di chi gli voleva bene»; quindi nel ruolo di moglie, tra una maternità vissuta dapprima come impossibile e giunta inattesa, come miracolosa.
Tutto questo in una Sicilia lussureggiante, ricca di profumi e colori, che il «pellegrinaggio» di Severino, lasciata Stromboli, attraversa da Siracusa a Tindari, Patti, Oliveri, Milazzo, riportandolo nei luoghi della loro convivenza spesso determinati dal suo lavoro di impiegato postale.
Il viaggio si fa autonomo filo rosso per Severino, soprattutto in quanto viene svelando risvolti di rapporti familiari non proprio semplici, come quando l’ha tradita, escluso da un’Anna tutta presa dalla maternità. Un’Anna che, succube d’una madre «forte e ostinata», vive il matrimonio come «una gabbia dentro cui hai deciso di restare per non fare un torto a nessuno», in specie a quell’«uomo che mi ha sposata e per contratto devo ricambiare, fosse solo per dovere o riconoscenza», avendo «già deciso che nessuna forma d’amore sarebbe riuscita a bastarti. Ti saresti nutrita di mancanze».
Anna negli incontri con conoscenti del passato — da Daniela, l’amica intima che per Anna rappresentava l’incarnazione della scelta di libertà che lei non si è mai sentita di abbracciare; al medico che senza rendersene conto era riuscito a consentire il miracolo della futura maternità di lei; a quel possibile figlio da «acquistare» quando incombeva la minacciosa certezza della sterilità — ma ancor più nelle scatole e nei cassetti che Severino viene recuperando in quei luoghi — l’abito nuziale sepolto in cortile; «la bambola di pezza incinta dimenticata in questo scantinato, dal sorriso cucito al contrario» — gli rivelano, più che «la donna che mi hai nascosto per tutti questi anni, la donna che ti sei ostinato a non vedere». Un rapporto nel quale si sommano la condizione di moglie che Anna mai avrebbe voluto, dubbi e reticenze su maternità di adozione o naturale, una condizione bifronte di Anna figlia e poi madre, ma, soprattutto, la «lezione della libertà del padre». Con la sua ambiguità: sia quella di Peppe era una «libertà malata», acquisita con dolore altrui (un mistero svelato solo all’ultimo), per di più «poi messa in pratica rovinando le vite di chi gli voleva bene»; sia in sé stessa, con quel dubbio esistenziale di Anna: «Ma tu ci pensi mai agli altri? A quanto male può fare il tuo stramaledetto bisogno di essere sempre te stessa?». Ed è un armonico rincorrersi tra racconto esterno e una memoria che, mentre si riaffaccia «al vivo», al tempo stesso si volge nel suo contrario, di «memoria ingombrante: tutta la mia storia fino a qui appartiene a un uomo che non sono più io o forse non sono mai stato io. Più ti cerco più mi sento scomparire. Mi stai cancellando persino nei miei ricordi». Uno svelamento a sé stesso delle loro stratificate identità da cui nasce un’acquisita saggezza: «E ora che ho preso il timone cosa importa se è tardi e non so più dove andare? La libertà è sapere dove non vuoi più stare».