Corriere della Sera - La Lettura

Noi siamo le finzioni che mettiamo in atto

- Di LAURA ZANGARINI

Il direttore dell’Odéon Théâtre di Parigi, Stéphane Braunschwe­ig, porta a Torino il suo quarto Pirandello, «Come tu

mi vuoi». Dice: «Ha capito l’umanità meglio di chiunque ed esplorato la relazione tra identità individual­e e collettiva»

Al Teatro Carignano di Torino, Stéphane Braunschwe­ig, regista tra i più illustri della scena internazio­nale, direttore dell’Odéon Théâtre di Parigi, mette in scena Come tu mi vuoi di Luigi Pirandello. Il Nobel di Girgenti si ispirò per quest’opera, volgendola al femminile, al caso dello smemorato di Collegno, noto anche come «caso Bruneri-Canella»: la ricerca di identità di un uomo ricomparso all’indomani del primo conflitto mondiale. Protagonis­ta della pièce scritta nel 1929 e ambientata nella Germania del primo dopoguerra, è l’Ignota, ballerina in un cabaret berlinese. Una sera viene seguita da un uomo, convinto di aver riconosciu­to in lei la moglie del suo migliore amico, scomparsa dieci anni prima... Braunschwe­ig, non è la prima volta che incontra Pirandello...

«È la quarta pièce che metto in scena — dopo Vestire gli ignudi, Sei personaggi in cerca d’autore e I giganti della montagna — ed è a un tempo molto legata ai precedenti e molto differente. Ritroviamo un personaggi­o femminile che, come Ersilia in Vestire gli ignudi, cerca di sfuggire alla realtà dei fatti e si inventa una storia o un’identità; come nei Sei personaggi, il trauma è centrale all’opera, con la domanda se possiamo sperare che l’arte possa sublimarlo; e troviamo, come nei Giganti, il desiderio di ritirarsi dalla società, in questo caso la società fascista degli anni 1920-1930. Ma Come tu mi vuoi è anche molto diversa. Probabilme­nte è l’unica pièce di Pirandello in cui un intero atto si svolge fuori dall’Italia, precisamen­te a Berlino, dove lo scrittore siciliano era in “esilio” volontario. È altresì l’unica pièce che si inscrive in una realtà storica, quella del primo dopoguerra. In questo primo atto sotto l’influenza tedesca, che può evocare la Lulù di Wedekind o i quadri di Otto Dix, sentiamo che Pirandello, siciliano di un mondo puritano, osserva con un misto di fascinazio­ne e repulsione le decadenti notti berlinesi, ed è sorprenden­te — per noi che abbiamo il senno di poi della storia — ch’egli non faccia alcuna allusione al nazismo in ascesa. Come se non lo vedesse».

Nella seconda parte, che si svolge in Veneto, nemmeno il fascismo viene nominato...

«Ma intuiamo che abbia un peso sulla rigida società che Pirandello mette in scena. Credo che egli scriva, come nei Giganti, una favola sul fascismo, o meglio una favola sulle false pretese della ricostruzi­one nazionale dopo la Grande guerra. Trovo in quest’opera, e in questo periodo, molti richiami col presente: il montare degli estremismi ovunque in Europa, la difficoltà a vederli bene o a identifica­rli. E oggi — e non potevo prevederlo quando ho deciso di allestire lo spettacolo — l’offensiva russa in Ucraina risuona con forza in quella austriaca dell’Italia del nord di cui nel testo si parla».

Chi è l’Ignota?

«È una ballerina di cabaret, Elma, intrappola­ta in una relazione tossica con un famoso scrittore. Un italiano di passaggio la riconosce come Lucia, sposa dell’amico Bruno Pieri, scomparsa in Veneto dieci anni prima, durante l’occupazion­e austriaca. Dopo molte esitazioni, la donna accetta di andare con lui in Italia per ritrovare suo “marito”. Ma è davvero Lucia? O poter diventare questa Lucia le permette di fuggire da Elma? È tutta la follia di questa pièce piena di suspense a catturarci nella trappola delle possibili identità dell’Ignota, e a metterci di fronte al nostro bisogno di crederci o meno. Ma che sia o no la vera Lucia, Pirandello ci propone il destino di una donna la cui identità è stata distrutta dalla guerra e dalle esazioni degli eserciti di occupazion­e: un “corpo senza nome”. Attraverso lei, l’autore ci racconta i traumi del conflitto, della distruzion­e, dello stupro, e del mondo “dopo”, quello del fascismo che ha sfruttato e represso questi traumi: un tempo in cui l’identità spezzata degli individui viene ricostruit­a nella pericolosa illusione di un’identità collettiva».

L’Europa vive oggi un altro conflitto armato all’interno dei suoi confini. Teme che la guerra possa degenerare?

«Naturalmen­te! In un mondo globalizza­to, siamo tutti legati insieme. Ciò che mi colpisce di questa mostruosa guerra in Ucraina è come siamo passati, in un giorno, dalla civiltà alla barbarie. Abbiamo cercato attraverso organizzaz­ioni internazio­nali come l’Onu o l’Unione Europea di impedire il ritorno della guerra in Europa. Eppure, eccola qui! E la minaccia nucleare ci rende impotenti ad aiutare coloro che aderiscono ai valori dell’Europa. L’Unione Europea è più fragile che mai, ma più necessaria che mai. Tutto può cambiare in un giorno, l’intero edificio può crollare in un giorno: è questo a essere terrifican­te in ciò che viviamo».

Cosa la affascina di Pirandello?

«Ha capito meglio di chiunque altro che esistiamo attraverso le finzioni che mettiamo in atto di noi stessi: la vita è un tema in cui tutte queste finzioni si incontrano. Ha sistematiz­zato l’idea che ogni punto di vista contenga la realtà, e quindi che sia tutto relativo. Non credo che egli neghi l’idea che ci possa essere una verità oggettiva, una verità dei “fatti”, ma questi fatti sono così insopporta­bili che occorre sottrarvis­i per sopravvive­re. Fuggire nella finzione. Questo è ciò che fa il personaggi­o dell’Ignota. Il relativism­o di Pirandello esisteva già nei suoi racconti e romanzi, ma è proprio nel suo teatro che si pone, un teatro che si sviluppa solo dopo l’esperienza traumatizz­ante della Prima guerra mondiale. È tanto più interessan­te oggi che le fake news e il complottis­mo diffusi dai social sono anche, in un certo modo, frutto di questo relativism­o. Ma mentre le fake news pretendono di imporre un’altra verità, Pirandello si sfila da qualsiasi verità definitiva e ci suggerisce di reinventar­e il nostro rapporto con il mondo grazie alla nostra capacità di immaginazi­one».

Lei ha detto che allestire un’opera di Pirandello è come avviare un’indagine di polizia. Perché?

«Perché la verità appare solo in frammenti, attraverso ciò che i personaggi raccontano, e non si sa mai se dicono la verità o se mentono. Le sue pièce spesso sembrano puzzle di cui mancano parecchi pezzi. Il regista, gli attori, e poi gli spettatori, sono costretti a ricostruir­e quanto più possibile il puzzle, ma alla fine non possono che fare delle ipotesi. Ciò rende lo spettatore molto attivo, e può essere assai gratifican­te. Come tu mi vuoi è un thriller psicologic­o».

Attraverso l’enigmatica figura di Lucia, Pirandello esplora i traumi lasciati dalla guerra: come rivivere dopo la violenza, dopo l’indicibile? Qual è il suo punto di vista?

«Quando vedo le immagini provenient­i dall’Ucraina, i massacri di civili, gli stupri, i bambini uccisi, mi sento come se capissi meglio cosa significas­se vivere durante la Prima o la Seconda guerra mondiale, e anche su quali basi storiche e psicologic­he si è formato il teatro di Pirandello. I traumi della guerra sono ancora vivi dopo molte generazion­i: la pace è lunga da ricostruir­e, mentre la guerra distrugge tutto in un istante. Credo che Come tu mi vuoi possa aiutarci a capire cosa può ancora succederci, e cosa dobbiamo evitare. Anche Brecht o Horváth si sono occupati dei traumi della guerra, in Tamburi nella notte o Don Juan ritorna dalla guerra. Ma per capire tutto questo periodo, il romanzo di Scurati M. Il figlio del secolo è affascinan­te...».

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