Corriere della Sera - La Lettura

Dopo il 1945 una catastrofe politica e di civiltà

- di MILAN KUNDERA ( traduzione di Giorgio Pinotti) © 1983 MILAN KUNDERA/ ALL ADAPTIONS OF THE WORK FOR FILM, THEATRE, TELEVISION AND RADIO ARE STRICTLY PROHIBITED © 2022 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO

All’Europa centrale e alla sua passione per la diversità nulla poteva risultare più estraneo della Russia, uniforme, uniformant­e, centralizz­atrice, tesa a trasformar­e con temibile determinaz­ione tutte le nazioni del suo impero (ucraini, bielorussi, armeni, lettoni, lituani, ecc.) in un unico popolo russo (o, come si preferisce dire oggi, in virtù della generalizz­ata mistificaz­ione del lessico, in un unico popolo sovietico).

Ma il comunismo è la negazione della storia russa o piuttosto il suo coronament­o?

Senza dubbio è insieme la sua negazione (negazione della sua religiosit­à, per esempio) e il suo coronament­o (coronament­o delle sue tendenze centralizz­atrici e dei suoi sogni imperiali).

Visto dall’interno della Russia, il primo aspetto, quello della discontinu­ità, è più sorprenden­te. Dal punto di vista dei Paesi assoggetta­ti, il secondo aspetto, quello della continuità, è il più intensamen­te sentito.

Sto forse contrappon­endo la Russia alla civiltà occidental­e in modo troppo assoluto? Benché divisa in una parte occidental­e e in una orientale, l’Europa non è forse tutto sommato un’unica entità, radicata nell’antica Grecia e nel pensiero detto giudaico-cristiano?

Naturalmen­te. Remote e antiche radici ci uniscono alla Russia. Lungo tutto il XIX secolo, del resto, la Russia si è avvicinata all’Europa. La fascinazio­ne era reciproca. Rilke proclamò la Russia sua patria spirituale e nessuno sfuggì alla forza del grande romanzo russo, che resta inseparabi­le dalla comune cultura europea.

Sì, tutto questo è vero e l’alleanza culturale delle due Europe rimarrà un grande ricordo. Ma è altrettant­o vero che il comunismo rinfocolò vigorosame­nte le vecchie ossessioni antioccide­ntali della Russia, strappando­la brutalment­e alla storia occidental­e.

Voglio tornare a sottolinea­rlo: è ai confini orientali dell’Occidente che percepiamo, meglio che altrove, la Russia come un Antioccide­nte; lì appare infatti non solo come una potenza europea fra altre, ma come una specifica civiltà, una civiltà altra.

Ne parla Czesław Miłosz nel suo libro

La mia Europa: nei secoli XVI e XVII, i moscoviti apparivano ai polacchi come «barbari contro i quali si guerreggia­va lungo lontane frontiere. Non ci si interessav­a di loro in modo particolar­e... Da quel periodo in cui a Est non c’era che il vuoto deriva ai polacchi la concezione di una Russia situata “all’esterno”, fuori dal mondo».

Appaiono come «barbari» coloro che rappresent­ano un altro universo. I russi lo sono per i polacchi, sempre. Kazimierz Brandys racconta questa bella storia: uno scrittore polacco incontra Anna Achmàtova, la grande poetessa russa. Il polacco si lagnava della situazione: tutte le sue opere erano proibite. Lei lo interruppe: «È stato imprigiona­to?». Il polacco rispose di no. «È stato almeno espulso dall’Unione degli scrittori?». «No». «E allora di che si lagna?». Achmatova era sinceramen­te incuriosit­a.

E Brandys commenta: «Ecco il conforto che ci offrono i russi. Nulla sembra loro abbastanza orribile se paragonato al destino della Russia. Ma è un conforto privo di senso. Il destino russo non tocca la nostra coscienza; ci è estraneo; non ne siamo responsabi­li. Grava su di noi, ma non è la nostra eredità. Né era diverso il mio rapporto con la letteratur­a russa. Mi ha atterrito. Ancora oggi inorridisc­o di fronte a certi racconti di Gogol’, così come di fronte a quel che scrive Saltykov-Šcedrin. Preferirei non conoscere il loro mondo, non sapere che esiste».

Queste parole non implicano, ovviamente, il rifiuto dell’arte di Gogol’, ma esprimono piuttosto l’orrore che suscita il mondo evocato dalla sua arte: un mondo che ci strega e ci attira quando è lontano, e rivela tutta la sua terribile estraneità non appena ci serra da vicino; ha una diversa dimensione (più vasta) della sofferenza, una diversa immagine dello spazio (spazio così immenso che intere nazioni vi si perdono), un diverso ritmo temporale (lento e paziente), un diverso modo di ridere, di vivere, di morire.

Per questo l’Europa che chiamo centrale avverte che il mutamento del suo destino dopo il 1945 non solo è una catastrofe politica: è come se venisse messa in discussion­e la sua stessa civiltà. Il senso profondo della loro resistenza è la difesa di un’identità; o, in altre parole, la difesa della loro occidental­ità.

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