Corriere della Sera - La Lettura
IL SUO NOME È ANNA KARENINA
Nato nel 1952, Orhan Pamuk può essere considerato uno scrittore «all’antica», o addirittura (se si accetta la contraddizione in termini) un raro caso di classico precoce. Il Premio Nobel c’entra poco o nulla. Concepiti e scritti tra i quaranta e i cinquant’anni, due libri perfetti come Il mio nome è rosso (1998) e Neve (2002) del classico avevano, nettamente percepibile a una prima lettura, la qualità più essenziale, ovvero una promessa di durata, la capacità di attraversare indenni le contingenze che determinano nell’immediato il consenso e il successo.
In un ciclo di lezioni tenute ad Harvard nel 2010, e pubblicate con il titolo Romanzieri ingenui e sentimentali, è stato lo stesso Pamuk, seguendo le orme delle Lezioni americane di Italo Calvino, a chiarire la sua filosofia dell’arte rispecchiandosi nelle opere dei maestri più amati. Ma a differenza del funambolico Calvino, insuperabile nel salto di palo in frasca, Pamuk finisce sempre per tornare sullo stesso libro, Anna Karenina, a suo parere «il più grande romanzo di tutti i tempi». In particolare, lo scrittore turco è ossessionato da una scena iniziale: Anna che, già avvelenata dall’amore per Vronskij, sola in treno cerca di leggere un romanzo inglese. Prima, com’è ovvio, fatica a concentrarsi, poi si immerge pienamente nella trama. Pamuk spreme questo episodio marginale di Tolstoj fino a ricavarne la legge suprema del «talento narrativo»: la capacità di «parlare di noi come fossimo un’altra persona, e degli altri come se fossimo nei loro panni».
È una teoria attendibile della scrittura quanto lo è della lettura. Presuppone quella circolarità dell’esperienza e dell’immaginazione senza la quale la scrittura è lettera morta. Vero e solitario maestro del romanzo, Pamuk ne ha intuito il segreto più prezioso.