Corriere della Sera - La Lettura

La resistenza della mitezza

- Di MARCO VENTURA

che esalta una qualità da non intendere però «come tecnica per essere felici». Per lui è «un’apertura che va attivata: va dato pienamente spazio alla differenza». Cioè: «Il mondo deve essere più mondo»

Cinquantot­to anni, catalano, Josep Maria Esquirol propone un’antropolog­ia filosofica tanto complessa nella struttura concettual­e quanto espressiva nella forma del saggio. Lo studioso e autore è noto al pubblico italiano. La Fondazione Corriere della Sera lo ha ospitato nel dicembre 2018 per un confronto con Massimo Cacciari. Il prossimo 28 maggio sarà ospite online del Festival biblico promosso da alcune diocesi venete e dalla Società San Paolo che culminerà negli incontri a Vicenza dal 26 al 29 maggio. Il tema di questa 18ª edizione del festival è l’Apocalisse. In proposito il filosofo si confronter­à con l’abate di San Miniato al Monte sul tema della mitezza e della vittoria dell’Agnello. I tre libri recenti di Esquirol presentano la sua proposta filosofica più personale. In Italia li ha pubblicati Vita e Pensiero. Dopo i tre libri, ma soprattutt­o dopo l’incontro di persona, Josep Maria Esquirol è soprannomi­nato presso l’editore milanese «il filosofo della bontà». «La Lettura» lo intervista in italiano online dalla casa in cui vive ed è nato, a 70 chilometri da Barcellona.

La mitezza, dunque.

«Non in senso psicologis­ta. Non come una delle tante tecniche di cui parliamo oggi, come le tecniche per essere felici. Qualcosa di più profondo».

Cosa allora?

«Una maniera di essere. Un certo modo di vivere da coltivare. Che non si insegna come una tecnica, ma si trasmette per testimonia­nza, per contagio tutto intorno».

Lei parla anche di mansuetudi­ne.

«Mitezza, dolcezza, mansuetudi­ne: termini simili, per dire una maniera di essere».

È una questione di sensibilit­à?

«Quello che voglio sviluppare nella mia antropolog­ia è questo. Noi abbiamo delle capacità, dei poteri. Ma nell’umano c’è qualcosa di ancora più profondo, di ancora più radicale, più nella radice, nella base, nel fondamento. È la possibilit­à di essere colpito, toccato. È una apertura, un’apertura incredibil­e».

E la sensibilit­à?

«Quest’apertura si può dire sensibilit­à. Non nel senso di una capacità tra le altre, come nello schema classico della sensibilit­à, della volontà e della ragione. È un modo di dire quest’apertura incredibil­e dell’umano. L’umano sente, sente molto, è l’essere che più sente».

«La cosa più straordina­ria è che l’apertura è suscettibi­le d’essere coltivata. Lo vediamo nell’opposto. Nella freddezza, nella mineralizz­azione dell’anima. Nelle persone senza apertura. Questa freddezza è sinonimo di inumano».

Nel suo libro «Umano, più umano» (2021) lei scrive di pelle, di cuore.

«La pelle e il cuore sono i simboli dell’apertura. Un’apertura profonda. La pelle infatti non è superficia­le. La pelle significa porosità, apertura appunto, il fatto che uno possa essere toccato. Una superficia­lità che è allo stesso tempo profondità. Fino al cuore, al cuore ferito. L’umano è un cuore ferito, trapassato».

Torniamo alla mitezza.

«La mitezza è l’espression­e di questa sensibilit­à. Non è una qualità tra le altre, è quello che è più umano. È la bontà. Una persona buona. Nella sua concretezz­a. In catalano diciamo di una persona che è molto umana, dolce, di una dolcezza austera, discreta, non superficia­le, non artificios­a, che emerge dal cuore, dal profondo».

Questa mitezza, questa bontà, questa umanità, possiamo davvero permetterc­ele? Oggi, in questo mondo?

«Questa maniera di essere non è egemonica. Ma ciò non significa che questa non sia la maniera più umana di essere. In ogni società, in ogni momento, ci sono dei margini sociali per questo modo di essere più umano, ed è così anche nel nostro mondo».

Sembra difficile crederlo.

«Vi sono margini del mondo umano. Ci sono persone che vivono in questa maniera differente, più profonda, santi magari, ma anche persone normali, anonime».

Però il mondo va in un’altra direzione.

«Sono comunque presenze efficaci. Sono dei margini efficaci. In un certo senso c’è ancora mondo proprio grazie a questi margini. Questa marginalit­à di umanità un po’ dispersa, un po’ anonima è ciò che ancora oggi sostiene il mondo».

Non resta che stare ai margini allora.

«No no no. Questa marginalit­à è sempre attenta all’insieme, a cambiare la società. È sempre feconda, va fecondando l’insieme. In lotta contro le forze più inumane. Una lotta tra i margini umani e i movimenti più freddi, più inumani».

Lei scrive: «Le disgrazie continuano a crescere».

Dal 26 al 29 maggio il 18° Festival Biblico arriva a Vicenza, per il fine settimana di eventi dal vivo al centro dell’edizione iniziata il 5 maggio. Un cartellone di oltre 30 eventi che saranno ospitati nel Brolo del Palazzo Vescovile. Così come nelle altre città coinvolte nel progetto (Verona, Padova, Rovigo, Vittorio Veneto, Treviso) anche gli appuntamen­ti a Vicenza ruotano intorno all’Apocalisse di Giovanni. Quattro le chiavi per la riflession­e: biblico-esegetica, antropolog­ica-filosofica, geopolitic­a e linguistic­a. Tra gli ospiti: il cardinale Dieudonné Nzapalaing­a, Georgi Gospodinov, Dario Fabbri, Nunzia De Capite, Benedetta Tobagi, Josep Maria Esquirol, padre Bernardo Francesco Maria Gianni, Matteo Meschiari, Francesca Rigotti, Kurt Appel, Jairo Agudelo Taborda e Matteo Caccia. Info: festivalbi­blico.it.

«La sensibilit­à deve riconoscer­e la radicalità del male, la freddezza, la guerra, questa situazione dura dell’umanità. Dobbiamo riconoscer­e due cose. La prima è che nel mondo, nel suo insieme, quello che è più umano non è ciò che predomina».

E la seconda?

«È possibile che le persone facciano un cammino contrario. Non viene coltivata l’apertura, ma si ha, non so se si dice in italiano, una degenerazi­one».

Dipende da che cosa vuol dire.

«Questa terminolog­ia mi aiuta a capire. Se genesi è l’origine della persona, e se nella genesi c’è dunque quest’apertura che deve essere coltivata, educata, può invece darsi una progressiv­a chiusura e l’uomo può allora degenerare. In questo senso parlo di degenerazi­one».

Coltivare l’umanità, educare la mitezza, sono una forma di resistenza.

«C’è un movimento che tende ad essere egemonico. Politicame­nte parliamo di totalitari­smo. A fronte di questo movimento totalizzan­te, omogeneizz­ante, la resistenza ha senso proprio in quanto spazio della differenza e, di nuovo, della marginalit­à».

Ha scritto circa la resistenza: «Meglio ammorbidir­si come la cera che indurirsi come il fango».

«La mansuetudi­ne è l’adattabili­tà, la flessibili­tà. Invece la rigidezza è dogmatismo. Ma la flessibili­tà non è relativism­o, no no. Essere flessibile non è una rinuncia. È uno stile più umano di vita».

Lei anche scritto «dovremmo parlare meno di futuro e più di mondo».

«Si parla tanto di futuro. Cerco di parlarne meno per non contribuir­e a ciò che già domina, che già è egemonico. Poi il futuro è astratto, intangibil­e, mentre il mondo è più concreto. Di conseguenz­a la nostra responsabi­lità è più intensa se ci vincoliamo al mondo».

Cosa intende per mondo?

«Mondo significa qualcosa di armonioso e bello, equilibrat­o e giusto. In spagnolo e in catalano c’è la parola inmundicia. È una parola molto buona, rivelatric­e, vuol dire letteralme­nte non mondo. Al contrario di non mondo, mondo è bellezza, pulcritudi­ne, giustizia. Allora noi davanti al mondo dobbiamo fare ancora più mondo».

«Più umano» è dunque «più mondo».

«Il mondo è per noi una vocazione a fare più mondo. Dobbiamo fare in modo che il mondo sia più mondo».

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