Corriere della Sera - La Lettura
La sana autocritica dell’antropologia
Viviamo una congiuntura storica in cui le narrazioni del progresso, della democrazia, dell’illuminismo e dell’avanzare della civiltà non offrono più garanzie né suscitano una fede incrollabile. Diverse sono invece le storie verso le quali ci indirizza l’antropologia. Forse perché è l’unica disciplina intellettuale che si concentra sulla comprensione delle diverse società e delle loro storie interconnesse, essa può forse aiutarci a capire, con un complesso realismo, dove stiamo andando, separatamente e insieme.
Chi scrive proviene dagli Stati Uniti d’America, dove un tempo giornalisti e comuni cittadini in cerca di conoscenze interculturali potevano rivolgersi a figure come Margaret Mead in merito a una vasta gamma di argomenti: razza, pratiche sessuali, educazione dei figli, credenze religiose, rituali burocratici e molto altro. Oggi i giornali non ospitano più con regolarità i contributi degli antropologi. Così le università statali, sotto la spinta di politici dediti al taglio dei costi, si mettono in cerca di modi per «modernizzarsi»: e i dipartimenti di antropologia sono particolarmente vulnerabili.
Si crede forse che, in questo mondo globalizzato, conosciamo già gli aspetti importanti delle altre società. Ma così, le caratteristiche distintive scompariranno presto oppure saranno preservate solo come «patrimonio» per il turismo. E la lettura curiosa e aperta che l’antropologia offre dell’alterità di certo apparirà sempre minacciosa per i valori stabili e tradizionali. Al giorno d’oggi proliferano forme limitanti di conservatorismo e di nazionalismo difensivo, ed è per questo che cresce la resistenza verso le narrazioni complesse che l’antropologia propone. Il festival Dialoghi di Pistoia contrasta attivamente queste tendenze, accogliendo una vasta gamma di prospettive e di narrazioni antropologiche. Eventi pubblici come questo — mi duole dirlo — nel mio Paese sono inconcepibili.
L’antropologia moderna ha dato un grandissimo contributo al nostro discorso comune. Accennerò brevemente ad alcune idee — o forse dovrei dire disposizioni, sensibilità — che mi sembrano cruciali e meritevoli di essere custodite. Lo farò limitandomi all’antropologia «socioculturale» (e, aggiungerei, «storica»).
Il principale contributo offerto da questa disciplina nell’era moderna è l’idea relativistica di cultura. Prima delle innovazioni introdotte nel XX secolo da Franz Boas, Bronisław Malinowski, Margaret Mead, Ruth Benedict e altri, «cultura» era un sostantivo singolare. Indicava valori raffinati e arte «alta», traguardi di élite poste all’estremità superiore di una progressione evolutiva da «primitivo» a «civilizzato». Invece l’antropologia, nutrita da un intenso lavoro sul campo in luoghi «esotici», sosteneva che la cultura appartenesse in pari misura a tutti. Gli etnografi spiegavano che le società apparentemente più semplici utilizzavano lingue molto complesse, sostenevano strutture familiari elaborate, e la loro vita economica, religiosa e spirituale si adattava ai mondi che abitavano.
Dopo il 1900 è diventato possibile parlare di «culture». L’idea plurale dell’antropologia ha così preso piede, tanto che al giorno d’oggi si parla abitualmente di culture giovanili, culture aziendali, culture della classe operaia... e persino (dove abito io, a Santa Cruz in California) di «culture canine»! Forse il successo del concetto, il suo ingresso nel parlare comune, ne ha oscurato la radicalità, la capacità di mettere in discussione i nostri presupposti di partenza. Se consideriamo le culture del mondo come ugualmente valide, e cerchiamo seriamente di comprenderle nei loro termini, siamo de-centrati. Il relativismo culturale inquieta ciò che diamo per scontato; interroga ciò che riteniamo più sacro; espande ciò che possiamo immaginare. Di fronte al cambiamento climatico e al degrado ambientale, ad esempio, possiamo imparare molto dai modi in cui le comunità indigene dimostrano rispetto per l’ambiente che le circonda, vivendo in reciprocità con gli animali e gli altri esseri viventi. In questi tempi di «post-verità» e di teorie cospiratorie incontrollate, mi ritrovo spesso a ricordare un’osservazione fatta più di un secolo fa da Franz Boas su quelli che i linguisti definiscono «evidenziali» nel kwakwala, una lingua indiana parlata nel Canada occidentale. La grammatica del kwakwala impone di specificare, per esporre un fatto, se vi si è assistito di persona, se ne è sentito parlare, oppure lo si è sognato. Quanto sarebbe più attendibile il nostro discorso pubblico se obbedisse a una regola simile!
Il relativismo culturale — un atteggiamento di apertura e curiosità nei confronti di altri modi di vivere e di disponibilità a mettere in discussione il nostro — è dunque un dono essenziale dell’antropologia moderna. Un altro lascito indispensabile è la critica dell’essenzialismo razziale che ha accompagnato l’emergere del concetto antropologico di cultura. Com’è noto, Franz Boas e i suoi studenti attaccarono senza sosta — e con successo, almeno per un certo periodo — l’eugenetica e la pseudoscienza evoluzionistica. La fede nell’esistenza di «razze» stabili e biologicamente determinate è stata confutata. Ma, come sappiamo sin troppo bene, le idee razziste non muoiono: si ripresentano sotto forme nuove. L’antropologia, ora alleata con la genetica, torna con insistenza a dimostrare l’incoerenza del pensiero razziale e ad affermare le determinazioni molteplici e interagenti della diversità umana.
Dai tempi di Franz Boas la nostra disciplina è cambiata. Inizialmente, quando ha rotto con le gerarchie dell’evoluzionismo ottocentesco, l’idea antropologica di cultura (o di culture) è caduta in un eccesso di reazione, asserendo l’esistenza di molti mondi che funzionavano separatamente, pari per complessità e interesse ma non dinamici, inventivi né interattivi. Ormai quella visione antistorica e «tassonomica» della diversità umana ha subito una critica approfondita, cosicché il concetto antropologico di cultura che ereditiamo nel XXI secolo è storico, o forse è meglio dire multi-storico. Le persone cambiano incessantemente, ma non nello stesso modo o nella stessa direzione.
Forse l’impulso più forte al cambiamento del concetto è venuto dall’anticolonialismo post-1945. Le diffuse contestazioni dell’imperialismo hanno messo