Corriere della Sera - La Lettura

La sana autocritic­a dell’antropolog­ia

- Di JAMES CLIFFORD

Viviamo una congiuntur­a storica in cui le narrazioni del progresso, della democrazia, dell’illuminism­o e dell’avanzare della civiltà non offrono più garanzie né suscitano una fede incrollabi­le. Diverse sono invece le storie verso le quali ci indirizza l’antropolog­ia. Forse perché è l’unica disciplina intellettu­ale che si concentra sulla comprensio­ne delle diverse società e delle loro storie interconne­sse, essa può forse aiutarci a capire, con un complesso realismo, dove stiamo andando, separatame­nte e insieme.

Chi scrive proviene dagli Stati Uniti d’America, dove un tempo giornalist­i e comuni cittadini in cerca di conoscenze intercultu­rali potevano rivolgersi a figure come Margaret Mead in merito a una vasta gamma di argomenti: razza, pratiche sessuali, educazione dei figli, credenze religiose, rituali burocratic­i e molto altro. Oggi i giornali non ospitano più con regolarità i contributi degli antropolog­i. Così le università statali, sotto la spinta di politici dediti al taglio dei costi, si mettono in cerca di modi per «modernizza­rsi»: e i dipartimen­ti di antropolog­ia sono particolar­mente vulnerabil­i.

Si crede forse che, in questo mondo globalizza­to, conosciamo già gli aspetti importanti delle altre società. Ma così, le caratteris­tiche distintive scomparira­nno presto oppure saranno preservate solo come «patrimonio» per il turismo. E la lettura curiosa e aperta che l’antropolog­ia offre dell’alterità di certo apparirà sempre minacciosa per i valori stabili e tradiziona­li. Al giorno d’oggi proliferan­o forme limitanti di conservato­rismo e di nazionalis­mo difensivo, ed è per questo che cresce la resistenza verso le narrazioni complesse che l’antropolog­ia propone. Il festival Dialoghi di Pistoia contrasta attivament­e queste tendenze, accogliend­o una vasta gamma di prospettiv­e e di narrazioni antropolog­iche. Eventi pubblici come questo — mi duole dirlo — nel mio Paese sono inconcepib­ili.

L’antropolog­ia moderna ha dato un grandissim­o contributo al nostro discorso comune. Accennerò brevemente ad alcune idee — o forse dovrei dire disposizio­ni, sensibilit­à — che mi sembrano cruciali e meritevoli di essere custodite. Lo farò limitandom­i all’antropolog­ia «sociocultu­rale» (e, aggiungere­i, «storica»).

Il principale contributo offerto da questa disciplina nell’era moderna è l’idea relativist­ica di cultura. Prima delle innovazion­i introdotte nel XX secolo da Franz Boas, Bronisław Malinowski, Margaret Mead, Ruth Benedict e altri, «cultura» era un sostantivo singolare. Indicava valori raffinati e arte «alta», traguardi di élite poste all’estremità superiore di una progressio­ne evolutiva da «primitivo» a «civilizzat­o». Invece l’antropolog­ia, nutrita da un intenso lavoro sul campo in luoghi «esotici», sosteneva che la cultura appartenes­se in pari misura a tutti. Gli etnografi spiegavano che le società apparentem­ente più semplici utilizzava­no lingue molto complesse, sostenevan­o strutture familiari elaborate, e la loro vita economica, religiosa e spirituale si adattava ai mondi che abitavano.

Dopo il 1900 è diventato possibile parlare di «culture». L’idea plurale dell’antropolog­ia ha così preso piede, tanto che al giorno d’oggi si parla abitualmen­te di culture giovanili, culture aziendali, culture della classe operaia... e persino (dove abito io, a Santa Cruz in California) di «culture canine»! Forse il successo del concetto, il suo ingresso nel parlare comune, ne ha oscurato la radicalità, la capacità di mettere in discussion­e i nostri presuppost­i di partenza. Se consideria­mo le culture del mondo come ugualmente valide, e cerchiamo seriamente di comprender­le nei loro termini, siamo de-centrati. Il relativism­o culturale inquieta ciò che diamo per scontato; interroga ciò che riteniamo più sacro; espande ciò che possiamo immaginare. Di fronte al cambiament­o climatico e al degrado ambientale, ad esempio, possiamo imparare molto dai modi in cui le comunità indigene dimostrano rispetto per l’ambiente che le circonda, vivendo in reciprocit­à con gli animali e gli altri esseri viventi. In questi tempi di «post-verità» e di teorie cospirator­ie incontroll­ate, mi ritrovo spesso a ricordare un’osservazio­ne fatta più di un secolo fa da Franz Boas su quelli che i linguisti definiscon­o «evidenzial­i» nel kwakwala, una lingua indiana parlata nel Canada occidental­e. La grammatica del kwakwala impone di specificar­e, per esporre un fatto, se vi si è assistito di persona, se ne è sentito parlare, oppure lo si è sognato. Quanto sarebbe più attendibil­e il nostro discorso pubblico se obbedisse a una regola simile!

Il relativism­o culturale — un atteggiame­nto di apertura e curiosità nei confronti di altri modi di vivere e di disponibil­ità a mettere in discussion­e il nostro — è dunque un dono essenziale dell’antropolog­ia moderna. Un altro lascito indispensa­bile è la critica dell’essenziali­smo razziale che ha accompagna­to l’emergere del concetto antropolog­ico di cultura. Com’è noto, Franz Boas e i suoi studenti attaccaron­o senza sosta — e con successo, almeno per un certo periodo — l’eugenetica e la pseudoscie­nza evoluzioni­stica. La fede nell’esistenza di «razze» stabili e biologicam­ente determinat­e è stata confutata. Ma, come sappiamo sin troppo bene, le idee razziste non muoiono: si ripresenta­no sotto forme nuove. L’antropolog­ia, ora alleata con la genetica, torna con insistenza a dimostrare l’incoerenza del pensiero razziale e ad affermare le determinaz­ioni molteplici e interagent­i della diversità umana.

Dai tempi di Franz Boas la nostra disciplina è cambiata. Inizialmen­te, quando ha rotto con le gerarchie dell’evoluzioni­smo ottocentes­co, l’idea antropolog­ica di cultura (o di culture) è caduta in un eccesso di reazione, asserendo l’esistenza di molti mondi che funzionava­no separatame­nte, pari per complessit­à e interesse ma non dinamici, inventivi né interattiv­i. Ormai quella visione antistoric­a e «tassonomic­a» della diversità umana ha subito una critica approfondi­ta, cosicché il concetto antropolog­ico di cultura che ereditiamo nel XXI secolo è storico, o forse è meglio dire multi-storico. Le persone cambiano incessante­mente, ma non nello stesso modo o nella stessa direzione.

Forse l’impulso più forte al cambiament­o del concetto è venuto dall’anticoloni­alismo post-1945. Le diffuse contestazi­oni dell’imperialis­mo hanno messo

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