Corriere della Sera - La Lettura
Una sola narrazione porta fuori strada
L’uomo a una dimensione di cui parlava Herbert Marcuse negli anni Sessanta del secolo scorso (Einaudi, 1967), si sta trasformando in un essere a una sola narrazione. Sembra di vivere in una serie televisiva che ogni mattina svela qualche nuova sfumatura dello stesso tema. Negli ultimi due decenni si sono alternati il terrorismo islamico, l’esportazione della democrazia, le crisi finanziarie, il virus e poi le guerre. In mezzo si sono inserite molte calamità ambientali. Ognuna di queste narrazioni ci ha avvolto e travolto, assorbendoci ciascuna per un po’ di tempo, come in un reality show.
Manca l’intreccio tra queste narrazioni. E mancano le storie al plurale, i punti di vista di persone e culture più o meno lontane da noi. In questa «epoca di confusione», come la definisce James Clifford nell’articolo pubblicato in queste pagine, occorrerebbe moltiplicare le storie per resistere alla tentazione di una narrazione unica.
L’intreccio tra le vicende portanti che caratterizzano questo accidentato periodo a cavallo tra XX e XXI secolo in realtà esiste: è una nuova, grande narrazione, che stenta però a decollare. In un fortunato libro, Amitav Ghosh parlava di Grande cecità (Neri Pozza, 2017) a proposito del drastico e repentino cambiamento climatico. Lo scrittore di origini bengalesi si soffermava sulla incapacità del romanzo, del cinema, della letteratura, di tematizzare le sofferenze della Terra. In effetti, è proprio l’ambiente, con la sua decisa reazione alla distruttività dell’agire umano, l’intreccio che unisce le narrazioni discrete che si inseguono l’una dopo l’altra, solo apparentemente slegate l’una dall’altra.
La grande narrazione dell’ambiente che ancor troppo timidamente si affaccia al mondo contemporaneo è il ritorno di un’idea molto antica: non siamo soli nell’universo, ma siamo esseri relazionali, intenzionali, razionali che vivono con altri esseri umani e non umani anch’essi capaci di volontà, di desiderio di vivere e riprodursi, in una rete di interdipendenze che solo lo sguardo coloniale e prometeico dell’uomo (per lo più declinato al maschile) ha potuto nascondere e ignorare.
Di fatto stiamo facendo poco o nulla per ricostruire e riconoscere il delicato intreccio di relazioni che ci legano agli altri esseri viventi. L’uomo a una sola dimensione — la crescita e il consumo — rimane al momento, purtroppo, il solo orizzonte in base al quale ci orientiamo. La stessa espressione «transizione ecologica» ne è la prova più evidente: ci auguriamo di transitare da un sistema energetico fossile a un altro retoricamente definito «sostenibile», illudendoci di mantenere il medesimo stile di vita, di continuare insomma a vivere nel reality in cui siamo calati.
È questa la ragione principale per cui la grande narrazione dell’ambiente prende piede solo in momenti catastrofici. La nostra cecità non è tanto nei confronti di ciò che ci accade — cicloni, terremoti devastanti, tsunami che si portano via turisti e gente del posto, ondate anomale di calore che fanno cadere a terra persino gli uccelli, guerre devastanti per il controllo dei minerali rari —, quanto verso le possibilità alternative.
L’ambiente ci appare solo come distruzione, devastazione, ciò che, paradossalmente, legittima di nuovo l’azione «antropocenica» di resistenza degli esseri umani che, come in una mitologia preistorica, sono chiamati a sopravvivere a un ambiente ostile che si ribella alle nostre scelte.
Ci mancano le storie, dice James Clifford. Ci mancano le voci di società e gruppi sociali «diversi da noi» che hanno fatto e fanno altre scelte rispetto al consumismo e al mito della crescita infinita. Frettolosamente accantonate da una teoria del progresso che oggi è in piena crisi, come «primitive» e «selvagge», queste voci si rivelano più che mai importanti per ricostruire una immaginazione del mondo che vogliamo per il futuro.
Questo pensiero selvaggio, come argomentava Claude Lévi-Strauss in uno dei suoi libri più famosi, non è il pensiero dei selvaggi, piuttosto consiste in una serie di storie che allargano le possibilità dell’umano, senza conformarsi alla narrazione unica dell’Antropocene e della reazione catastrofica dell’ambiente. Nelle mie ricerche di campo in Oceania non ho ritrovato né società a un passo dall’essere inghiottite dalle acque dell’oceano e neppure i buoni ecologisti di Jean-Jacques Rousseau. La cura e il piacere nella coltivazione dei giardini, la gioia per i tempi di abbondanza che si esprime in grandi rituali redistributivi e si alterna ai momenti di crisi e carestia, il profumo inebriante di un collier di fiori appena raccolti nel cortile di casa, sono segni di una visione non necessariamente catastrofica di quella che noi occidentali chiamiamo «natura». Sono segni simili a quelli che appassionati di montagna postano senza sosta sui social, fotografando fiori, praterie, animali selvatici che irrompono sulla scena come alieni ai processi di domesticazione totale del mondo. Il pensiero selvaggio dell’ambiente che rompe la narrazione della natura matrigna e del disastro che incombe, è un pensiero dell’ambiente che ci cura, che si cura di noi.
Se solo tenessimo a bada le nostre ambizioni coloniali di dominio degli altri umani e non umani, passeremmo facilmente da una visione di esseri in balìa dell’ambiente, alla concezione dell’ambiente come bàlia che si cura degli esseri viventi. È una questione di possibilità. Finché ci affideremo a un pensiero unico del progresso e della transizione ecologica, rimarremo nel pantano di una grande narrazione ambientale nascosta o riemergente solo attraverso i disastri. Rimarremo immersi nell’idea consolante e reazionaria secondo cui «tanto non esistono alternative». La strada per uscire dalla crisi ambientale non è necessariamente lastricata di rinunce, può consistere se lo vogliamo in porte aperte al futuro.