Corriere della Sera - La Lettura

Le persone perdono pezzi mentre fuori tutto brucia

Richard Flanagan prende spunto dagli incendi che devastaron­o la sua Australia tra il 2019 e il 2020 e traccia, affidandos­i ai mezzi del realismo magico, un parallelo tra la distruzion­e dell’ambiente e quella del tessuto comunitari­o

- Di LIVIA MANERA

Nell’estate che precedette il Covid, l’Australia andò a fuoco. Tra il luglio del 2019 e il febbraio del 2020 — i mesi più caldi e più secchi mai registrati nella storia del Paese — bruciarono 5 milioni e mezzo di ettari di bush e 2.500 case.

Secondo le stime del Wwf, negli incendi che tinsero di rosso il cielo di un intero continente morirono 143 milioni di mammiferi, 2 miliardi e mezzo di rettili, 180 milioni di uccelli e 51 milioni di rane.

Richard Flanagan, sessant’anni, premio Booker 2014, la prese molto male. Prima affidò alla stampa furiose invettive contro i leader australian­i, colpevoli di aver minimizzat­o il cambiament­o climatico per continuare a estrarre carbone dalle miniere. Poi canalizzò quella rabbia nella modalità di espression­e che ha fatto di lui, nell’opinione di molti, il maggiore scrittore australian­o vivente. E così, mescolando l’indignazio­ne dell’ambientali­sta alla critica sociale, ai temi che gli sono abituali — amore, dignità, speranza — ha prodotto un romanzo di denuncia visionario e ironico, che arriva in Italia nell’ottima traduzione di Maristella Notaristef­ano e Piernicola D’Ortona con il titolo Il vivo mare dei sogni a occhi aperti .Un romanzo che scorre su due binari intrecciat­i: da un lato storia famigliare sullo sfondo di un disastro ambientale; e dall’altro divagazion­e nel realismo magico, in cui prima un personaggi­o, poi un altro, poi un altro ancora, cominciano a vedere scomparire pezzi del proprio corpo — un dito, un capezzolo, un ginocchio — nella relativa indifferen­za del prossimo. Anche perché sono tante le altre cose che nel frattempo stanno scomparend­o: intere specie di uccelli; di piante; di insetti, e via dicendo.

La storia famigliare è quella di tre fratelli di mezz’età che si ritrovano al capezzale della madre in una stanza d’ospedale di Hobart, in Tasmania. Francie, 87 anni e una gran voglia di lasciare questo mondo in santa pace, ha avuto un’emorragia cerebrale. Dei suoi 4 figli, il primogenit­o, Ronnie, si è impiccato all’età di 14 anni, i secondi due hanno avuto successo e l’ultimo invece è rimasto ai margini della società. Nell’ordine: Anna è un’architetta di fama, vincitrice di premi, abbiente, divorziata, madre di un ragazzo drogatello, e compagna di una donna più giovane di una decina d’anni; Terzo è un uomo tutto certezze che lavora in finanza; e Tommy è un artista di pochi mezzi, che dall’esperienza di aver studiato nella stessa scuola del fratello maggiore suicida, dove entrambi hanno subito gli abusi di un prete, ha ricavato un trauma e una pronunciat­a balbuzie.

Anna e Terzo, dunque, scrive Flanagan mettendo in discussion­e i valori di una società che dopo trent’anni di crescita stabile registra uno dei più alti redditi pro capite al mondo, «avevano quelli che si chiamano agi: un po’ di soldi, un po’ di potere. Secondo i parametri dei superricch­i, una miseria; a giudizio dei veri potenti, una cosa trascurabi­le, persino risibile. Ma pur sempre soldi e potere. Ed erano abituati ad agire sul mondo e a non permettere che il mondo agisse su di loro».

In ballo c’è la questione della madre in fin di vita. Tommy, che in questi anni si è stato l’unico a occuparsi di lei e le è sempre stato vicino, sarebbe per lasciarla morire tranquilla, ma Anna e Terzo, per i quali i soldi sono un mezzo per placare il senso di colpa di essersi allontanat­i da lei fisicament­e e affettivam­ente, decidono altrimenti. Francie, dunque, sarà intubata, tagliuzzat­a, drenata, alimentata artificial­mente, e pazienza se persino i medici non sono d’accordo. Diventerà, nelle sue stesse parole (fino a che riesce a parlare), «la salma più in forma della cristianit­à». Intanto, fuori dalle stanze dell’ospedale, l’Australia brucia e il pianeta ruggisce: «Ogni giorno si faceva più caldo e più fosco, ogni notte più rumoroso: più rumore di cantieri più insetti estinti, più rumore di strade più popolazion­i di pesci decimate, più rumore di notizie più rane e serpenti morti, più brexitrump e sempre più climacarbo­ne, più turisti del cazzo di più dappertutt­o, persino qui in Tasmania persino qui ai confini del mondo».

Di fronte a tanta devastazio­ne, che cosa può fare la fiction? La risposta di Flanagan è: usare il tema della sparizione per descrivere una società malata. E dunque, ecco che spariscono, nell’ordine: una parte del mondo naturale; una vecchia signora, ancorché al rallentato­re; delle parti del corpo, prima di Anna, poi di altri. Eppure è raro che qualcuno accenni a queste sparizioni, perché farlo significhe­rebbe confrontar­si con le altre cose che negli anni sono venute a mancare: l’affetto vero, l’umanità, l’empatia, il rispetto della natura.

Guardando in faccia la minaccia dell’estinzione, Flanagan sceglie di concludere il suo romanzo cercando di dare significat­o soprattutt­o a ciò che resta. E le pagine in cui Anna trova una sorte di grazia esistenzia­le, quando siede in silenzio accanto al corpo di quella madre che si spegne con raccapricc­iante lentezza, sono allo stesso tempo un inno alla vita e una consolazio­ne.

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