Corriere della Sera - La Lettura
Antidoti al veleno dei maschi
Tornano dieci racconti di usciti qua e là, poi raccolti nel 1991. Atmosfera datata, ma i temi dell’autrice canadese, come la sopraffazione degli uomini e le insidie della natura più pericolosa (cioè la società), ci parlano ancora
Il talento di Mrs. Atwood si vede anche in una raccolta come Consigli per sopravvivere in natura: dieci racconti apparsi in riviste e magazine («The New Yorker», «Granta», «Saturday Night», «Playboy») pubblicati in volume nel 1991. Come altre due raccolte, Fantasie di stupro e L’uovo di Barbablù, il libro era già uscito in Italia negli anni Novanta dalla raffinata Tartaruga della lungimirante Laura Lepetit. Ora che la serie tratta da Il racconto dell’ancella (romanzo, è bene ricordarlo, del 1985) ha reso Atwood un’autrice mainstream ,da leggere per interpretare il presente, anche la raccolta torna nelle librerie italiane per l’editore Racconti, con la nuova traduzione di Gaja Cenciarelli.
L’atmosfera che si respira in Consigli per sopravvivere in natura è deliziosamente datata e, lette l’una dopo l’altra, le storie mostrano a volte il limite di una certa ripetitività. Tutto questo però è sempre compensato dall’arguzia — poetica, commovente, buffa — con cui la scrittura inchioda i personaggi alle loro azioni e che la versione di Cenciarelli restituisce con cura ed efficacia.
«Non è affatto infelice, ma ha intenzione di esserlo, più avanti. Le pare un requisito necessario» pensa, per esempio, Joanne, cameriera consumatrice di dozzinali romanzetti d’amore da leggere la notte di nascosto alla luce di una torcia. Joanne, una dei personaggi del primo racconto, Vera spazzatura, ambientato in un campeggio canadese per adolescenti, è ancora nella fase in cui crede che quello non sia un Paese per vecchi e che forse la cosa migliore sia morire prima dei trent’anni. Il tempo forse la accontenterà, non si sa, certo lei si ritrova, solo qualche anno più tardi, a guardare indietro, a quei giorni in cui, lei e le altre cameriere, si crogiolavano al sole «come un branco di foche scuoiate, i corpi bruni e rosa lucidi di olio solare», mentre dall’altra parte i ragazzini tra i cespugli le spiavano con il binocolo.
Atwood scrive di campi estivi, esaurimenti, gravidanze precoci, carriere arrancanti, diritti delle donne, giornali e questioni sociali ispirandosi anche a figure note della cultura canadese del tempo e ambientando i dieci racconti per metà a Toronto e per metà nei boschi, in un periodo di tempo che va dagli anni Cinquanta agli anni Novanta. Ma sopratutto scrive delle conseguenze dell’amore o, quanto meno, del desiderio. A tutto applica il filtro di una sensibilità femminile alle prese con una rivoluzione non ancora pienamente compiuta: la natura a cui sopravvivere, evocata dal titolo, è fondamentalmente la natura umana, le giungle sono quelle della contemporaneità, le regioni più inospitali sono quelle del quotidiano, dei rapporti personali, del desiderio e della disillusione. È, in sostanza la natura della vita con la sua imprevedibilità (ma non è forse peggiore la prevedibilità?), le sue connessioni mancate, lo scorrere del tempo che a volte accelera, a volte si ferma squadernando davanti agli occhi un passato da dissotterrare, che sia sotto forma di mummia come avviene in uno dei racconti (La mummia della palude) o semplicemente un vissuto personale come in Morte per paesaggio. Qui una vedova con la casa piena di quadri torna con la memoria alla misteriosa sparizione della sua migliore amica, tredicenne, durante un’escursione a un campo estivo.
Le protagoniste sono donne in bilico tra emancipazione e patriarcato, colte sopratutto nel loro rapporto con gli uomini: mariti, padri, zii, colleghi, amanti. Nel racconto che dà il titolo al volume, Atwood gira intorno, in cerchi sempre più stretti, alla relazione tra tre sorelle e il profugo ungherese con «i capelli troppo lucidi, le scarpe troppo a punta, i vestiti troppo stirati» divenuto ricco uomo d’affari, che ha sposato una di loro e sedotto le altre due. Durante un fine settimana nella casa di campagna della famiglia i risentimenti passati e i desideri nascosti tornano a galla, increspando, metaforicamente,la superficie del lago.
In Iside nell’oscurità, Atwood descrive la presa che il ricordo di una poetessa sottovalutata in vita esercita su un uomo fino alla fine; Connor è invece un professore di archeologia, impegnato a scoprire la storia di un sacrificio umano, che porta in Scozia con sé Julie, una sua studentessa con cui ha una relazione clandestina. L’esumazione della mummia nel mezzo della palude sembra procedere insieme all’esumazione, da parte di Julie, di un senso di rivalsa verso l’amante fino a quel momento oggetto di una sorta di venerazione.
Atwood spinge spesso la narrazione al limite del paradosso, condisce il quotidiano con la spezia del distopico innescando cortocircuiti dal climax serrato. Una donna di mezza età racconta la terribile morte della sua migliore amica, uccisa e smembrata dal marito, e di come abbia provato, da allora, a rendere omaggio alla sua memoria raccogliendo fondi per un rifugio per le donne maltrattate («deporrò una corona di soldi invisibili sulla sua tomba»).
Il successo delle donne è spesso avvelenato dal potere del maschio. Succede a Susanna, orfana di padre la cui infanzia è stata sostenuta economicamente dai suoi tre zii («tutti biondi, stempiati e con il viso arrossato») che hanno comprato a lei e alla madre la casa in cui è cresciuta. Entrata nella redazione di un giornale, per occuparsi di matrimoni e funerali, Susanna ottiene la sua occasione grazie al recensore culturale, un’altra figura simile a uno zio. Ma dopo essere diventata una star televisiva, il mentore pubblica inspiegabilmente un libro di memorie che la descrive come una scalatrice opportunista e che la costringe a rivedere tutto in una luce diversa, rapporto con il padre morto compreso.
La scrittura di Margaret Atwood è piena di osservazioni ironiche sulle relazioni interpersonali e non disdegna finali a sorpresa, anche raccapriccianti. Come nel racconto Palla di pelo, in cui Kat, la protagonista, «la femmina più alla moda, dura e lucida, con le labbra viola, i capelli a spazzola» che «ha attraversato gli anni Ottanta alla Rambo», è la direttrice di una rivista di avanguardia che si chiama «Lametta»: estetica anni Novanta, «tagli di capelli come forma d’arte, un po’ di arte vera e propria, recensioni di film, una spruzzata di magia, guardaroba di idee che erano abiti e di abiti che erano idee — la spallina metafisica». Kat, affilata come quel nome che ricorda una gatta da strada, ha ottenuto il lavoro per il suo talento, ma anche perché ha sedotto il suo capo Gerald, sposato e ordinario, che lei riesce a trasformare in uomo di successo («non era spiritoso, non era ben informato, era quasi sprovvisto di fascino dialettico. Ma era entusiasta, era manipolabile, era un foglio bianco»). Nella guerra dei sessi tuttavia tutto è lecito e quando il nuovo Gerald, ammaestrato a dovere in stile e spietatezza le si rivolta contro prendendo il suo posto, Kat serve la sua ripugnante e simbolica vendetta, ben incartata in una scatola di cioccolatini.