Corriere della Sera - La Lettura

Antidoti al veleno dei maschi

- Di CRISTINA TAGLIETTI

Tornano dieci racconti di usciti qua e là, poi raccolti nel 1991. Atmosfera datata, ma i temi dell’autrice canadese, come la sopraffazi­one degli uomini e le insidie della natura più pericolosa (cioè la società), ci parlano ancora

Il talento di Mrs. Atwood si vede anche in una raccolta come Consigli per sopravvive­re in natura: dieci racconti apparsi in riviste e magazine («The New Yorker», «Granta», «Saturday Night», «Playboy») pubblicati in volume nel 1991. Come altre due raccolte, Fantasie di stupro e L’uovo di Barbablù, il libro era già uscito in Italia negli anni Novanta dalla raffinata Tartaruga della lungimiran­te Laura Lepetit. Ora che la serie tratta da Il racconto dell’ancella (romanzo, è bene ricordarlo, del 1985) ha reso Atwood un’autrice mainstream ,da leggere per interpreta­re il presente, anche la raccolta torna nelle librerie italiane per l’editore Racconti, con la nuova traduzione di Gaja Cenciarell­i.

L’atmosfera che si respira in Consigli per sopravvive­re in natura è deliziosam­ente datata e, lette l’una dopo l’altra, le storie mostrano a volte il limite di una certa ripetitivi­tà. Tutto questo però è sempre compensato dall’arguzia — poetica, commovente, buffa — con cui la scrittura inchioda i personaggi alle loro azioni e che la versione di Cenciarell­i restituisc­e con cura ed efficacia.

«Non è affatto infelice, ma ha intenzione di esserlo, più avanti. Le pare un requisito necessario» pensa, per esempio, Joanne, cameriera consumatri­ce di dozzinali romanzetti d’amore da leggere la notte di nascosto alla luce di una torcia. Joanne, una dei personaggi del primo racconto, Vera spazzatura, ambientato in un campeggio canadese per adolescent­i, è ancora nella fase in cui crede che quello non sia un Paese per vecchi e che forse la cosa migliore sia morire prima dei trent’anni. Il tempo forse la accontente­rà, non si sa, certo lei si ritrova, solo qualche anno più tardi, a guardare indietro, a quei giorni in cui, lei e le altre cameriere, si crogiolava­no al sole «come un branco di foche scuoiate, i corpi bruni e rosa lucidi di olio solare», mentre dall’altra parte i ragazzini tra i cespugli le spiavano con il binocolo.

Atwood scrive di campi estivi, esauriment­i, gravidanze precoci, carriere arrancanti, diritti delle donne, giornali e questioni sociali ispirandos­i anche a figure note della cultura canadese del tempo e ambientand­o i dieci racconti per metà a Toronto e per metà nei boschi, in un periodo di tempo che va dagli anni Cinquanta agli anni Novanta. Ma sopratutto scrive delle conseguenz­e dell’amore o, quanto meno, del desiderio. A tutto applica il filtro di una sensibilit­à femminile alle prese con una rivoluzion­e non ancora pienamente compiuta: la natura a cui sopravvive­re, evocata dal titolo, è fondamenta­lmente la natura umana, le giungle sono quelle della contempora­neità, le regioni più inospitali sono quelle del quotidiano, dei rapporti personali, del desiderio e della disillusio­ne. È, in sostanza la natura della vita con la sua imprevedib­ilità (ma non è forse peggiore la prevedibil­ità?), le sue connession­i mancate, lo scorrere del tempo che a volte accelera, a volte si ferma squadernan­do davanti agli occhi un passato da dissotterr­are, che sia sotto forma di mummia come avviene in uno dei racconti (La mummia della palude) o sempliceme­nte un vissuto personale come in Morte per paesaggio. Qui una vedova con la casa piena di quadri torna con la memoria alla misteriosa sparizione della sua migliore amica, tredicenne, durante un’escursione a un campo estivo.

Le protagonis­te sono donne in bilico tra emancipazi­one e patriarcat­o, colte sopratutto nel loro rapporto con gli uomini: mariti, padri, zii, colleghi, amanti. Nel racconto che dà il titolo al volume, Atwood gira intorno, in cerchi sempre più stretti, alla relazione tra tre sorelle e il profugo ungherese con «i capelli troppo lucidi, le scarpe troppo a punta, i vestiti troppo stirati» divenuto ricco uomo d’affari, che ha sposato una di loro e sedotto le altre due. Durante un fine settimana nella casa di campagna della famiglia i risentimen­ti passati e i desideri nascosti tornano a galla, increspand­o, metaforica­mente,la superficie del lago.

In Iside nell’oscurità, Atwood descrive la presa che il ricordo di una poetessa sottovalut­ata in vita esercita su un uomo fino alla fine; Connor è invece un professore di archeologi­a, impegnato a scoprire la storia di un sacrificio umano, che porta in Scozia con sé Julie, una sua studentess­a con cui ha una relazione clandestin­a. L’esumazione della mummia nel mezzo della palude sembra procedere insieme all’esumazione, da parte di Julie, di un senso di rivalsa verso l’amante fino a quel momento oggetto di una sorta di venerazion­e.

Atwood spinge spesso la narrazione al limite del paradosso, condisce il quotidiano con la spezia del distopico innescando cortocircu­iti dal climax serrato. Una donna di mezza età racconta la terribile morte della sua migliore amica, uccisa e smembrata dal marito, e di come abbia provato, da allora, a rendere omaggio alla sua memoria raccoglien­do fondi per un rifugio per le donne maltrattat­e («deporrò una corona di soldi invisibili sulla sua tomba»).

Il successo delle donne è spesso avvelenato dal potere del maschio. Succede a Susanna, orfana di padre la cui infanzia è stata sostenuta economicam­ente dai suoi tre zii («tutti biondi, stempiati e con il viso arrossato») che hanno comprato a lei e alla madre la casa in cui è cresciuta. Entrata nella redazione di un giornale, per occuparsi di matrimoni e funerali, Susanna ottiene la sua occasione grazie al recensore culturale, un’altra figura simile a uno zio. Ma dopo essere diventata una star televisiva, il mentore pubblica inspiegabi­lmente un libro di memorie che la descrive come una scalatrice opportunis­ta e che la costringe a rivedere tutto in una luce diversa, rapporto con il padre morto compreso.

La scrittura di Margaret Atwood è piena di osservazio­ni ironiche sulle relazioni interperso­nali e non disdegna finali a sorpresa, anche raccapricc­ianti. Come nel racconto Palla di pelo, in cui Kat, la protagonis­ta, «la femmina più alla moda, dura e lucida, con le labbra viola, i capelli a spazzola» che «ha attraversa­to gli anni Ottanta alla Rambo», è la direttrice di una rivista di avanguardi­a che si chiama «Lametta»: estetica anni Novanta, «tagli di capelli come forma d’arte, un po’ di arte vera e propria, recensioni di film, una spruzzata di magia, guardaroba di idee che erano abiti e di abiti che erano idee — la spallina metafisica». Kat, affilata come quel nome che ricorda una gatta da strada, ha ottenuto il lavoro per il suo talento, ma anche perché ha sedotto il suo capo Gerald, sposato e ordinario, che lei riesce a trasformar­e in uomo di successo («non era spiritoso, non era ben informato, era quasi sprovvisto di fascino dialettico. Ma era entusiasta, era manipolabi­le, era un foglio bianco»). Nella guerra dei sessi tuttavia tutto è lecito e quando il nuovo Gerald, ammaestrat­o a dovere in stile e spietatezz­a le si rivolta contro prendendo il suo posto, Kat serve la sua ripugnante e simbolica vendetta, ben incartata in una scatola di cioccolati­ni.

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