Corriere della Sera - La Lettura
La balestra di Trieste non dimentica niente
Se ancora qualcuno avesse dubbi sul perché del grande e ormai prolungato successo editoriale del noir un po’ a tutte le latitudini, la lettura di Veit Heinichen potrebbe costituire un buon suggerimento per trovarvi una risposta. Fuori da categorizzazioni di valore e dignità letteraria che hanno fatto il loro tempo, la lente degli scrittori (quelli bravi, schiera cui appartiene senza dubbio il sessantacinquenne autore tedesco) che scelgono le crime story a tinte cupe è indubbiamente fra le più adatte a mettere a fuoco la complessità e le contraddizioni della società contemporanea. Qualora poi vi si aggiunga la capacità di ancorare saldamente il proprio racconto alle pagine più dense e drammatiche della storia — «il passato che non passa mai», motto di uno dei personaggi del nuovo romanzo di Heinichen — in una città-confine quale Trieste, insieme all’abilità di mettere in scena uomini e donne comuni, in cui è facile identificarsi, la bontà del «piatto» portato sulla tavola del lettore è assicurata.
L’effetto moltiplicatore della serialità (siamo, con questo, all’undicesimo episodio della saga del commissario Proto Laurenti) e l’onda lunga del successo della serie televisiva andata in onda qualche anno fa in patria — e che ha spinto molti tedeschi e austriaci a recarsi in visita nei luoghi dei romanzi — non sono poi che l’ultima spruzzata di spezie a insaporire la pietanza già di per sé gustosa sfornata dallo scrittore di Stoccarda, da 25 anni residente proprio a Trieste.
Lontani parenti, che esce con l’impeccabile traduzione di Monica Pesetti, non tradisce le attese dei fan di Heinichen e del «suo» poliziotto, affiancato dall’ingombrante famiglia (la moglie Laura, i tre figli, la suocera e la nipotina), fonte costante di gioie e preoccupazioni, e dallo stuolo di colleghi e colleghe, ciascuno con i propri vizi e virtù, che condividono con lui — ormai vicequestore aggiunto —le attività investigative. Indagini che mai come stavolta affondano in un passato lontano e cupo: gli anni finali del secondo conflitto mondiale e quelli, immediatamente successivi, della Trieste divisa tra i vincitori e prostrata dalle ferite dell’occupazione nazifascista prima e jugoslava poi. Anni nei quali affonda il movente di alcuni omicidi compiuti con una micidiale balestra professionale e che riconducono alla stessa mano, armata dall’odio e dal desiderio di vendetta a decenni di distanza dai drammi che hanno sconvolto le vite di tante famiglie dopo l’8 settembre del 1943 e che hanno avuto per teatro alcuni luoghi-simbolo della città, su tutti il campo di sterminio (unico sul suolo italiano) della Risiera di San Sabba.
La mano di Heinichen, col suo stile asciutto e preciso, accende e raffredda la tensione quando occorre, muovendosi con sicurezza nel tratteggiare i personaggi — memorabile la figura della novantaseienne Ada Cavallin, lucidissima memoria storica del romanzo — e nel dipanare i fili dell’inchiesta fino allo scioglimento finale. Il lettore non può che rimanere incollato alla pagina e, chiusa anche l’ultima, restare con una domanda: a quando la prossima?