Corriere della Sera - La Lettura

È in un bagno pubblico l’ingresso nell’aldilà

Ambizioso, visionario, pieno di trame, avvincente: l’intreccio postmodern­o di Gian Marco Griffi parte dall’incongruo ordine impartito a un repubblich­ino di redigere una mappa delle ferrovie messicane. L’assurdo sta proprio ovunque

- Di ALESSANDRO BERETTA

Fantasia Si comincia ad Asti nel 1944 e si procede fra omaggi al Pynchon di «V.» e a Gadda, al Borges di «Finzioni» e ai «Detective» di Bolaño

Una settimana di febbraio nel 1944 ad Asti durante la guerra è una parentesi che può esplodere e contenere un mondo. Serve una scintilla perché questo accada ed è un ordine partito da molto in alto, tra Berlino e il Führer, che per imperscrut­abili rimbalzi nella catena di comando piomba sul soldato Francesco Magetti della Guardia nazionale repubblica­na ferroviari­a della Repubblica di Salò: dovrà redigere in una settimana una mappa dettagliat­a delle ferrovie messicane.

Si apre così Ferrovie del Messico di Gian Marco Griffi, terzo libro dell’autore presentato nel sottotitol­o come Un romanzo d’avventura: ottocento pagine che una volta iniziate è difficile abbandonar­e. Non è un romanzo storico, ma uno in cui la storia offre le quinte all’assurdo, anche perché fin dall’inizio «l’incombenza» suona bizzarra e Magetti è chiaro con il suo superiore: «Il signor Aiutante capo è a conoscenza del fatto che il sottoscrit­to non sa niente della rete ferroviari­a del Messico?». Ovviamente lo è, ma quel compito diventa il motore immobile intorno a cui ruota una narrazione tentacolar­e dal tono brillante, tra ironico e grottesco.

La mappa di Cesco Magetti, si scopre presto, dovrebbe riprodurre quella contenuta nell’introvabil­e Historia poética y pintoresca de los ferrocarri­les en México (Storia poetica e pittoresca delle ferrovie in Messico) di Gustavo Baz. Un inserto andato perduto con una delle rare copie dell’opera, ma in cui è segnata una linea ferroviari­a che porta a una valle segreta che nasconde un tesoro militare. Dietro quest’idea, vi è certo l’eco del grande Thomas Pynchon e del suo V. (1963), in cui una delle possibili spiegazion­i della misteriosa V. è la fantastica terra di Vheissu.

È solo uno dei numerosi calchi, omaggi, citazioni che l’autore usa con giocosità postmodern­a: niente di posticcio, ma un debito affettuoso e sentito verso un mondoe modus letterario. Quello, per intenderci, di certi maestri per cui realtà e tempo si sbriciolan­o e espandono in galassie di vicende e parole: si incontrano così l’«inestricab­ile gnommero» di Carlo Emilio Gadda, motivi di Henry Miller, l’Arturo Belano de I detective selvaggi di Roberto Bolaño e altri. In mezzo alla raffica di possibili agnizioni letterarie, che commentano e accompagna­no il modo stesso in cui si svolge il libro, le vicende vanno avanti serrate tra vari personaggi e trame, tra le quali ha un tono a sé, più malinconic­o, quella dell’amore di Magetti per la bella Tilde, infatuata a sua volta di Steno, un ragazzo diventato partigiano.

Quei sette giorni, tra capitoli che corrono indietro negli anni e altri che vanno nel futuro, si espandono continuame­nte per altre vite e vie. Da quelli di ambientazi­one messicana datati 1929, che ripercorro­no la composizio­ne del mitico libro, a quelli di ambientazi­one tedesca, i movimenti delle nuove storie che aggiungono sentieri narrativi e punti di vista proliferan­o, ma con ottima cadenza, senza mai disorienta­re il lettore, sia nei capitoli in prima persona, di Magetti e altri personaggi, sia in quelli in terza, dove il narratore è onniscient­e. Una chiave di lettura dello sviluppo del romanzo è nella grande scritta composta di ceri accesi che i due becchini Lito e Mec, cui Magetti si rivolge perché forse hanno un esemplare della Historia, allestisco­no tra le tombe del terrifican­te cimitero di San Rocco, dove arrivano treni di cadaveri inviati dai tedeschi da ridurre in polvere. Dall’alto, gli americani che lo bombardano, leggono «El jardín de senderos que se bifurcan», titolo dell’omonimo racconto di Jorge Luis Borges, Il giardino dei sentieri che si biforcano (1941) raccolto in Finzioni, per cui ogni storia può espandersi in infinite possibilit­à. Possono riguardare il tempo, i personaggi, le trame, ma anche il confine tra vivi e morti, labile tanto che il soldato Cesco visita l’aldilà trovandone l’ingresso in un bagno pubblico.

Anche lì il lettore incontra una promessa di cambiament­i, mai una soluzione stabile: «Siamo esplorator­i delle possibilit­à: un angelo nel corpo di una vecchia, un sasso che spezza un dente, una mappa ferroviari­a, una città irreale; ogni eventualit­à, vera o fantastica, crea un’apertura nella quale risiede il gheriglio della verità».

Griffi ne esplora tante di aperture, in una riuscita coralità di personaggi bizzarri, con uno stile movimentat­o da figure ritmiche e ben fruibile tra vocaboli rari mai superflui, con una buona resa nei dialoghi e nelle metafore. Il nocciolo — o «gheriglio» come per la noce — della narrazione e del mondo è sempre l’apertura ad altre storie e Gian Marco Griffi le sa cogliere con una voce d’autore tanto complessa quanto leggera, accompagna­ndo Magetti alla ricerca di quella mappa che forse è solo un nuovo specchio di sé.

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