Corriere della Sera - La Lettura
La feroce infelicità che sbrana la fragile felicità
Una famiglia modello. Poi irrompe un amore malato e tutto salta: il dramma di
Fino a diciassette anni Perla Giovannetti è tale di nome e di fatto, studentessa modello al liceo classico di una cittadina del litorale laziale, manzonianamente celata dietro sei asterischi, premiata per merito con la medaglia del Quirinale e figlia irreprensibile. Fra l’affetto, lo sconcerto e qualche accesso di gelosia del fratello minore Felix, l’io narrante del nuovo romanzo di Silvia Dai Pra’, ormai adulto e irrimediabilmente segnato dal destino, sulla ragazza si riversano le ambizioni di una famiglia della buona borghesia intellettuale di fine Novecento: il padre Mauro, uomo affascinante, amatissimo insegnante di Filosofia, animatore di un festival culturale e reiterato fedifrago, che per la figlia vuole un futuro nelle aule della Normale di Pisa, e la madre Angela, insegnante di Arte che ha deposto le velleità artistiche in favore di marito e prole.
Finché nella vita di Perla non entra il bello e maledetto James Tocci, uno sfaccendato di oltre dieci anni più grande, e quell’idillico quadretto familiare con tanto di villino deflagra: la giovane perde la testa, dimentica gli studi, inizia a ribellarsi ai genitori ostili a quella relazione, finisce in psichiatria e poi si sposa all’insaputa dei Giovannetti, improvvisamente trasformati in una delle tante famiglie infelici a loro modo.
Con Perla se ne va l’apparente serenità di un nucleo i cui segreti si sgretolano uno dopo l’altro, mentre invano i genitori e il fratello cercano a più riprese, nel corso degli anni, di riportarla a casa. James è un sadico ma affascinante manipolatore, che inganna a più riprese lo stesso Felix, un vampiro cui la ragazza si consegna come mite vittima sacrificale, pronta a rinunciare agli studi, a farsi custode del focolare e a trovare impieghi come barista mentre lui si gode la vita. Ci vorranno anni di tradimenti, di violenze fisiche e psicologiche perché Perla si accorga della verità e provi a scappare dal suo persecutore, che dietro origini umili nasconde conoscenze importanti e perciò, nonostante le numerose denunce per stalking e perfino per sevizie, finisce in carcere tutt’al più per pochi giorni, dopo i quali la sua vendetta si abbatte ogni volta più subdola e atroce. Intanto, gli eventi si snodano in un crescendo di suspense degna di un thriller, con una continua oscillazione di punti di vista, destinata a culminare in un finale aperto, che spiazza il lettore, confonde luci e ombre e induce a dubitare della verità.
Con I giudizi sospesi Silvia Dai Pra’ costruisce un ambizioso romanzo di ispirazione ottocentesca anche nei molti rimandi ai maestri del genere, ma profondamente calato negli ultimi quarant’anni di storia italiana, capace di raccontare dinamiche familiari e sociali di cui svela ipocrisia e mistificazioni.
Dietro quei Buddenbrook di provincia, all’ombra del conformismo borghese e della crisi della scuola, si consuma un’iniziazione alla vita adulta fatta di sesso praticato senza freni, droghe leggere e qualche pasticca, in un’impietosa indagine sui fallimenti, individuali e generazionali, sul «male quotidiano» che si annida nei nuclei familiari e si insinua nei figli sotto forma di striscianti imperativi categorici incuranti delle loro reali inclinazioni, sull’egoismo, il senso di colpa e la rimozione.
Fra sporadiche ricomparse di Perla e nuove ricadute nelle braccia del suo carnefice, si impone la denuncia della violenza contro le donne, fisica e psicologica, indagata negli anfratti di un meccanismo perverso cui è davvero difficile sfuggire, del pregiudizio e della generale incapacità del sistema di tutelarle. E contro i media, chiamati in causa da Angela, che ha scelto una nuova vita ma non si arrende all’ennesima scomparsa della figlia, impegnati a spettacolarizzare il dolore e a raccontare impietosamente una vicenda da cui nessuno si salva: tutti finiscono sconfitti dal male e dal dolore, dalle macchinazioni perverse di Tocci e della sorte, che si abbatte sui Giovannetti anche con il volto della pandemia, dall’amara presa d’atto dell’insensatezza dell’esistenza. Perché, come dice Mauro, «alla fine della vita capisci che non hai imparato nulla».