Corriere della Sera - La Lettura
Passato di moda ma sempreverde
Una lunghissima stagione creativa e la tenace fedeltà ai temi — la natura, Padova, Venezia, le immagini del mondo e delle sue creature — non hanno impedito a di sparire dall’orizzonte. Un’antologia lo ripropone
Diego Valeri non sarà un astro di prima grandezza del nostro firmamento poetico novecentesco, ma riconoscimenti autorevoli e una collocazione ben definita li ha comunque e a buon diritto ottenuti. Certo può accadere che ci si dimentichi di lui; ed è forse inevitabile, perché i poeti sono tanti e ancor più numerose sono le incombenze e le sollecitazioni a cui è sottoposta la nostra vita. Di conseguenza non è facile trovare il tempo per mettersi lì a leggere — e a leggere con naturalezza, senza farla troppo difficile — un libro di poesie.
Ma è davvero solo questione di tempo, allora, o non anche dell’apertura, della sensibilità d’animo, della disponibilità che i versi di Valeri richiedono e che, per altro, non sono affatto scontate? Luigi Baldacci, che è stato il suo critico migliore, lo ha definito un «poeta gentilissimo», e gentilissima appare davvero la sua poesia: «Vero: ho molto amato la vita,/ ogni giorno pagando il mio debito di dolore./ E più l’amo ora che a poco a poco mi manca,/ che già non è più mia». Ammettiamo pure che i termini che seguono siano equivoci, ma questa poesia si offre con straordinaria semplicità e chiarezza. Semplicità e chiarezza d’intonazione, d’immagini, di mezzi espressivi, a cominciare dalla lingua. Porta con sé anche una leggera patina aulica, qualcosa che già appariva démodé tra il primo e il secondo decennio del secolo scorso, quando Valeri (1887-1976) cominciò a scrivere poesie.
È insomma una poesia onesta, detto con la parola di Umberto Saba. Del resto, se in una sua celebre lirica Saba fa rimare «fiore» con «amore», dal canto suo Valeri mette in rima nei suoi versi «cuore» con «dolore».
Lo si avvicini per la prima o per l’ennesima volta, lo si sia dimenticato oppure no, leggere Valeri è comunque un’autentica delizia. L’occasione è data stavolta (ma si tratta in realtà di un autore dal punto di vista editoriale molto trascurato) dall’uscita dell’antologia Il mio nome sul vento. Poesie 1908-1976, che Carlo Londero ha ben curato per le edizioni Il Ponte del Sale. E appunto Londero ci spiega come il poeta stesso abbia aspirato molto per tempo a definire in un libro unico l’immagine più compiuta e fedele della propria poesia e dunque di sé stesso. Di qui il processo di selezione, a partire da una prima auto-antologia del 1930, a cui sottopose a più riprese i tanti libricini che veniva pubblicando nel corso del tempo. E in effetti Valeri è un poeta da antologia. I suoi quadri poetici fanno ciascuno storia a sé e, di conseguenza, si possono giudicare esclusivamente dalla loro riuscita intrinseca. Esiste ovviamente un approfondimento e anche uno sviluppo di certi temi e situazioni elettive (uno svolgimento biologico, legato al naturale susseguirsi delle stagioni della vita, piuttosto che agli accadimenti della storia), ma i legami narrativi sono laschi, per non dire inesistenti. Di qui la singolare sensazione di compiutezza e autosufficienza dei suoi singoli componimenti. Sembra infatti che non ci sia mai pregresso, qualcosa di pregiudicato o comunque di condizionato, ma che si riparta invece sempre daccapo, come se ogni volta fosse la prima volta.
È appunto questo il suo dono più prezioso. In ogni poesia di Valeri si trova un io poetico che prima e al di là di tutto riconosce di essere al cospetto della realtà e più in genere della vita (il che talvolta significa anche in presenza della morte). La natura, la città (la sua Padova, la sua Venezia; il paese natale, va ricordato, è però Piove di Sacco), gli elementi atmosferici, le immagini del mondo e delle sue creature — in fondo è tutto qui, come in tante piccole folgorazioni. Non gli interessa altro che cantare e celebrare il riconoscimento di questa relazione basica, iniziale, tra sé stesso e il mondo. Per questo nei suoi versi si trova sempre, nella gioia come nel dolore, un tratto almeno lievemente esultante. C’è l’incresparsi, il trascolorare delle cose e degli stati d’animo nel tempo (sua parola elettiva: «le immagini del tempo fuggitive»), ma il quadro proprio come il discorso poetico non si strappa mai, come se la poesia fosse il dono di questa relazione fondamentale e il poeta non volesse andare oltre, scavalcare la sacertà di ciò che immediatamente è e appare. È, la sua, una sorta di quintessenziale e irrinunciabile situazione poetica.
Alcuni suoi contemporanei sono certo più complessi di Valeri, ma leggendo i suoi versi sembra di comprendere, come con pochissimi altri accade, che cosa sia la poesia, e soprattutto perché c’è.