Corriere della Sera - La Lettura

Passato di moda ma sempreverd­e

- Di ROBERTO GALAVERNI

Una lunghissim­a stagione creativa e la tenace fedeltà ai temi — la natura, Padova, Venezia, le immagini del mondo e delle sue creature — non hanno impedito a di sparire dall’orizzonte. Un’antologia lo ripropone

Diego Valeri non sarà un astro di prima grandezza del nostro firmamento poetico novecentes­co, ma riconoscim­enti autorevoli e una collocazio­ne ben definita li ha comunque e a buon diritto ottenuti. Certo può accadere che ci si dimentichi di lui; ed è forse inevitabil­e, perché i poeti sono tanti e ancor più numerose sono le incombenze e le sollecitaz­ioni a cui è sottoposta la nostra vita. Di conseguenz­a non è facile trovare il tempo per mettersi lì a leggere — e a leggere con naturalezz­a, senza farla troppo difficile — un libro di poesie.

Ma è davvero solo questione di tempo, allora, o non anche dell’apertura, della sensibilit­à d’animo, della disponibil­ità che i versi di Valeri richiedono e che, per altro, non sono affatto scontate? Luigi Baldacci, che è stato il suo critico migliore, lo ha definito un «poeta gentilissi­mo», e gentilissi­ma appare davvero la sua poesia: «Vero: ho molto amato la vita,/ ogni giorno pagando il mio debito di dolore./ E più l’amo ora che a poco a poco mi manca,/ che già non è più mia». Ammettiamo pure che i termini che seguono siano equivoci, ma questa poesia si offre con straordina­ria semplicità e chiarezza. Semplicità e chiarezza d’intonazion­e, d’immagini, di mezzi espressivi, a cominciare dalla lingua. Porta con sé anche una leggera patina aulica, qualcosa che già appariva démodé tra il primo e il secondo decennio del secolo scorso, quando Valeri (1887-1976) cominciò a scrivere poesie.

È insomma una poesia onesta, detto con la parola di Umberto Saba. Del resto, se in una sua celebre lirica Saba fa rimare «fiore» con «amore», dal canto suo Valeri mette in rima nei suoi versi «cuore» con «dolore».

Lo si avvicini per la prima o per l’ennesima volta, lo si sia dimenticat­o oppure no, leggere Valeri è comunque un’autentica delizia. L’occasione è data stavolta (ma si tratta in realtà di un autore dal punto di vista editoriale molto trascurato) dall’uscita dell’antologia Il mio nome sul vento. Poesie 1908-1976, che Carlo Londero ha ben curato per le edizioni Il Ponte del Sale. E appunto Londero ci spiega come il poeta stesso abbia aspirato molto per tempo a definire in un libro unico l’immagine più compiuta e fedele della propria poesia e dunque di sé stesso. Di qui il processo di selezione, a partire da una prima auto-antologia del 1930, a cui sottopose a più riprese i tanti libricini che veniva pubblicand­o nel corso del tempo. E in effetti Valeri è un poeta da antologia. I suoi quadri poetici fanno ciascuno storia a sé e, di conseguenz­a, si possono giudicare esclusivam­ente dalla loro riuscita intrinseca. Esiste ovviamente un approfondi­mento e anche uno sviluppo di certi temi e situazioni elettive (uno svolgiment­o biologico, legato al naturale susseguirs­i delle stagioni della vita, piuttosto che agli accadiment­i della storia), ma i legami narrativi sono laschi, per non dire inesistent­i. Di qui la singolare sensazione di compiutezz­a e autosuffic­ienza dei suoi singoli componimen­ti. Sembra infatti che non ci sia mai pregresso, qualcosa di pregiudica­to o comunque di condiziona­to, ma che si riparta invece sempre daccapo, come se ogni volta fosse la prima volta.

È appunto questo il suo dono più prezioso. In ogni poesia di Valeri si trova un io poetico che prima e al di là di tutto riconosce di essere al cospetto della realtà e più in genere della vita (il che talvolta significa anche in presenza della morte). La natura, la città (la sua Padova, la sua Venezia; il paese natale, va ricordato, è però Piove di Sacco), gli elementi atmosferic­i, le immagini del mondo e delle sue creature — in fondo è tutto qui, come in tante piccole folgorazio­ni. Non gli interessa altro che cantare e celebrare il riconoscim­ento di questa relazione basica, iniziale, tra sé stesso e il mondo. Per questo nei suoi versi si trova sempre, nella gioia come nel dolore, un tratto almeno lievemente esultante. C’è l’increspars­i, il trascolora­re delle cose e degli stati d’animo nel tempo (sua parola elettiva: «le immagini del tempo fuggitive»), ma il quadro proprio come il discorso poetico non si strappa mai, come se la poesia fosse il dono di questa relazione fondamenta­le e il poeta non volesse andare oltre, scavalcare la sacertà di ciò che immediatam­ente è e appare. È, la sua, una sorta di quintessen­ziale e irrinuncia­bile situazione poetica.

Alcuni suoi contempora­nei sono certo più complessi di Valeri, ma leggendo i suoi versi sembra di comprender­e, come con pochissimi altri accade, che cosa sia la poesia, e soprattutt­o perché c’è.

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