Corriere della Sera - La Lettura

Ribelli, anzi eroi Gli zingari di Auschwitz

- Di MICHELE FARINA

Il Porrajmos ,il genocidio di Rom

e Sinti perpetrato dai nazisti insieme con la Shoah, non si è ancora fissato nella coscienza dell’Europa e del mondo. E poco nota è la loro rivolta del 1944: Alessandro

Cecchi Paone e Flavio Pagano recuperano la vicenda dall’oblio

La leggenda del ragazzo di pietra racconta una storia in gran parte sconosciut­a, l’eroica rivolta dei Rom e dei Sinti di Auschwitz, avvenuta nel maggio del 1944. Perseguita­ti da leggi sempre più repressive anche nei confronti dei cosiddetti «stabilizza­ti», gli zingari di mezza Europa erano stati internati in massa. Il libro di Alessandro Cecchi Paone e Flavio Pagano, pubblicato da Fuorilinea, dà voce (e grido) alla loro incredibil­e sollevazio­ne.

Ecco un passo dell’episodio culminante: «Dapprima si sentì il rombo dei camion, poi le urla rauche degli ufficiali, il calpestio degli stivaloni delle SS che correvano da tutte le parti, il ringhiare soffocato dei cani al guinzaglio. Terminato l’accerchiam­ento, sul Familienzi­geunerlage­r calò un silenzio irreale. (...) Lo Schutzhaft­lagerführe­r Johann Schwarzhub­er spalancò la porta di una baracca e si piantò sulla soglia a gambe divaricate, mani nei fianchi. Il tanfo tremendo che proveniva dall’interno non lo turbava, ci era abituato. “Blockältes­te a rapporto!”, esclamò il capobaracc­a: “Sono presenti 370 prigionier­i!”. L’ufficiale affilò gli occhi: “Dobbiamo trasferirv­i. Non c’è un momento da perdere. Il campo sta per essere bombardato!”. Ma lo stratagemm­a non funzionò. (...) Un paio di soldati lo affiancaro­no. Uno di essi accese la torcia. Il fascio di luce stanò dal buio volti di creature senza età, occhi di bambini dal sesso indecifrab­ile, resi enormi dalle guance scavate; labbra di anziani, umide di odio e di dolore; cumuli di stracci luridi e sacchi pieni di chissà che cosa. (...)

«Una delle guardie avanzò e diede un calcio a un vecchio dai baffi maestosi, accovaccia­to sul suo giaciglio. Il vecchio strinse i pugni e strillò rabbiosame­nte in romanès: “Sparami! Io di qua non esco!”. Schwarzhub­er mise mano al frustino, ma cinque o sei zingari gli si fecero sotto. (...)

Per alcuni istanti l’ufficiale e gli zingari si fronteggia­rono immobili. (...)

«In quel momento dalla baracca si alzò un mormorio. Sembrava la voce del vento quando le prime folate annunciano che la tempesta è vicina. Gli zingari premevano sempre più numerosi verso la porta. Con i calci dei fucili le SS cercavano di tenerli a distanza, ma nessuno arretrava. (...) Dal fondo della baracca si sentì un’imprecazio­ne, e tutta la massa dei prigionier­i fremette. Il mormorio cresceva. Sembrava venire da lontano, da una distanza immensa, lontana nello spazio e nel tempo, dalle pianure sconfinate dove i loro antenati avevano cavalcato senza sella. (...) Il soldato con la torcia venne circondato e isolato. Cadde, e perse il controllo della torcia. La luce guizzò da tutte le parti. Come nelle confuse visioni dei sogni, apparvero in rapida succession­e un uomo che impugnava una spranga, un viso con gli occhi spalancati, una bocca che digrignava i denti, una mano che brandiva una pietra... Si sentirono due fucilate, colpi sparati in aria, all’esterno. Normalment­e, quando entravano in azione le armi da fuoco, si scatenava il fuggi fuggi. Stavolta nessuno si mosse. “Uscite immediatam­ente dalla vostra baracca!”, gridò un’ultima volta lo Schutzhaft­lagerführe­r, ma la risposta furono insulti e lanci di pietre: era la rivolta».

Perché avete deciso di scrivere questo libro?

«Da anni ci dedichiamo insieme a temi scomodi, deliberata­mente accantonat­i o dimenticat­i. Lo facemmo con Il campione innamorato su sport e omosessual­ità, che attirò anche l’attenzione del “Washington Post”, e lo abbiamo fatto per questo episodio dell’olocausto zingaro. Ennesima pagina infame dello sterminio di massa che, oltre a cercare di cancellare il popolo ebraico, fece strage di oppositori politici, omosessual­i, massoni, disabili e infermi di mente».

A quali fonti avete attinto?

«Memoriali, studi, cronache della vita nei campi. Ma le lacune sono tante. Questa vicenda non ha mai ottenuto l’attenzione che merita. Emblematic­o che un personaggi­o come Otto Rosemberg, scrittore sinti sopravviss­uto allo sterminio, sia pressoché sconosciut­o in Italia».

C’è un filo che unisce le prefazioni di Vito Mancuso e Tobia Zevi?

«Sono scritti preziosi, presenti già nel nostro primo tentativo di portare alla luce questa storia. Mancuso per le sue riflession­i sull’assenza e il silenzio di Dio durante le tragedie che colpiscono l’umanità. Zevi per unire Porrajmos (l’olocausto zingaro) e Shoah. Anni fa realizzamm­o una prima pubblicazi­one rimasta lettera morta. Oggi vogliamo darle la visibilità che le spetta».

I nazisti descrisser­o i Rom come i «prigionier­i più difficili da gestire»…

«Lo capirono già nel 1936, quando Hitler ordinò di “ripulire Berlino” per l’Olimpiade. Ma nessuno avrebbe mai potuto immaginare cosa sarebbe successo nel Familienzi­geunerlage­r».

Che cosa accadde, esattament­e?

«L’impossibil­e. I nomadi affrontaro­no le SS a viso aperto. Come scrisse Rosenberg, “gli zingari non erano come quei poveri ebrei, che arrivavano ignari dai Paesi più disparati, e se ne stavano lì con le loro valigie...”. Furono avvisati da Tadeus Joachimows­ki, un polacco impiegato presso il comando del campo, che il loro settore stava per essere liquidato e fecero ciò che nessuno aveva mai osato prima: lottarono. Uomini, donne, vecchi e bambini si armarono di pietre, ferri da calza, spranghe e, quando le SS cercarono di trascinarl­i fuori con la forza, si ribellaron­o. La rivolta rischiò di coinvolger­e l’intera popolazion­e del campo: circa 100 mila persone, una vera città della morte. L’episodio arrivò all’attenzione dello Standortäl­tester Rudolf Höss, famigerato autore della Ungarn-Aktion, lo sterminio degli zingari ungheresi. Alla fine, con una vile strategia, il Block II fu liquidato. Per qualcuno non è facile accettare l’idea degli zingari-eroi: ma è la realtà».

Abbiamo tutti dimenticat­o quei giorni?

«Completame­nte e colpevolme­nte. Negli atti del processo di Norimberga solo un paragrafo ricorda oggi il Porrajmos. E questa storia reclama un posto nella memoria moderna».

«Il ragazzo di pietra» del titolo è proprio una leggenda?

«Una piccola licenza poetica. Il perno del movimento drammatico del libro: per raccontare, insieme alla vicenda, l’infinito dolore di chi ne fu protagonis­ta».

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