Corriere della Sera - La Lettura
L’elettricista e Verdi «La mia luce canta»
Nel momento in cui si sente il rumore sordo del portone che si chiude lentamente alle nostre spalle, ha inizio quello che con il senno di poi ci è sembrato un breve viaggio iniziatico in un tempo sospeso. I rumori cittadini nella Bologna di via Santo Stefano si allontanano, fino a svanire, a mano a mano che attraversiamo l’androne. Si sente solo il ritmo cadenzato dei passi. In fondo c’è una corte illuminata dalla luce blu del cielo che prelude al crepuscolo.
Ci accoglie marionanni (al secolo Mario Nanni, 1955, romagnolo di Bizzuno, Ravenna), «scrittore di luce» — come si definisce lui stesso — e tante altre cose, oltre che fondatore nel 1994 di Viabizzuno, azienda che la produce e la inventa. Nelle sue creazioni nulla è come uno si aspetta: marionanni ha cambiato radicalmente le regole nella progettazione della luce. Per questo lo chiamano a collaborare architetti come David Chipperfield, Peter Zumthor, Elisa Valero Ramos, Kengo Kuma... Ma marionanni è anche artista: le sue numerose opere sono state esposte, fra l’altro, alla Biennale di Venezia, alla Triennale di Milano, a Villa Panza di Varese, al Festival dei Due Mondi di Spoleto; hanno illuminato creativamente l’esterno del Teatro alla Scala il 7 dicembre 2009, con la prima della Carmen di Bizet diretta da Daniel Barenboim e firmata da Emma Dante.
È vestito di bianco. Ci fa strada, saliamo due rampe di scale e ci addentriamo nella sua casa museo. Olimpia, la sua assistente, lo segue da vicino, controlla spesso il telefono, annota cose su un’agendina. In cima alle scale c’è un altro suo collaboratore, Francesco, che per le due ore della nostra permanenza, dalla sua postazione di fronte a due computer, ha azionato video, suoni, luci.
Il mese prossimo marionanni debutterà anche nel teatro d’opera, lavorando al prossimo titolo della stagione del Teatro Comunale di Bologna, in scena dal 3 al 9 giugno, con la direzione di Daniel Oren. Si tratta di Luisa Miller, melodramma tragico in tre atti che Giuseppe Verdi compose e portò in scena nel 1849 al San Carlo di Napoli su libretto di Salvadore Cammarano, tratto dalla tragedia Kabale und Liebe di Friedrich Schiller. Una partitura che rappresenta, nel percorso del musicista, il grande passo nella maturità espressiva e stilistica: marionanni ha accettato la proposta del sovrintendente Fulvio Macciardi a condizione di avere carta bianca. Detto fatto. Firmerà lui regia, scene, costumi e luce. Quattro ruoli fondamentali coperti dalla stessa persona.
Mentre ci conduce all’interno della sua casamuseo virgola, mostrandoci la collezione personale di opere che ha realizzato e che vuole conservare per sé, spiega che — secondo lui — «un vero progettista quando prende un incarico, realizza un’opera, deve averne il controllo totale, per poter raccontare una storia. Metterci più persone a lavorare equivale a snaturarla». E sottolinea un altro punto per lui importante: «Quando ho iniziato questo progetto, la prima cosa che ho fatto è stata quella di realizzare un piccolo plastico per capire che cosa fosse necessario per fare dialogare la mia luce con il canto. Una cosa certa è che la regia partirà da un presupposto per me importante, e che ripeto sempre ai miei ragazzi, e cioè che solo quando tutte le arti si uniscono si può raggiungere l’incanto. E solo allora tutto diventa poesia, poesia di luce».
Attraversiamo le sale che contengono i suoi lavori. Ce li illustra in ogni dettaglio per aprire una finestra sul suo universo originalissimo, in continuo divenire. E che sembra stare a mezza via fra Archimede e Parsifal, tra un atteggiamento razionale, scientifico, matematico, del fare, e uno filosofico, poetico, esoterico. Sfiora le sue opere descrivendole. «Appoggi la mano qui». Sono le tavole del braille (ultima foto in alto a destra). «Da diversi anni scrivo — spiega — e racconto poesie e preghiere su tavole di bronzo. Se ne possono trovare due dentro la chiesa di San Marco a Milano, a pochi passi da Brera. Con l’aiuto di don Luigi ho potuto scriverle anche in latino. Il concetto di questi lavori è quello di illuminare, dare luce, anche ai non vedenti».
La chiesa è un argomento che torna a fare capolino nelle parole e nelle opere di marionanni. Ne è un esempio ex voto, un lavoro realizzato per la Biennale di Venezia: «Da bambino sono sempre rimasto affascinato dalle grandi “installazioni” nelle chiese, realizzate con i doni che facevano i fedeli quando ricevevano una grazia o qualcosa del genere. Tutte queste cose insieme creavano un ritmo, una melodia». Si ferma e rievoca il passato, raccontando che «fin da bambino mi sono appassionato ai presepi. Ne ho sempre fatti. Da figlio di mangiapreti quale ero, il parroco mi invitava sempre in chiesa a farne e mi insegnò anche un trucco: “Per vincere il primo premio devi illuminare correttamente Gesù”, diceva. È poi diventata una regola che ho applicato anche altrove».
La luce si è imposta come la pietra filosofale nella vita di marionanni: «Cerco emozioni diverse rispetto alla luce tradizionale». Parlando di Luisa Miller — mentre attraversiamo stanze piene di sorprese — dice anche: «Al centro dell’alle
Artista visionario, collaboratore di architetti,
marionanni esordisce al Comunale di Bologna con la «Luisa Miller» diretta da Daniel Oren. Firma regia, scene, costumi, l’illuminazione. «La Lettura» l’ha incontrato nella sua casa-museo-laboratorio: «Nella lirica conta il suono. Maestri? Sole e luna»
stimento ci saranno due elementi fondamentali, la musica e il canto. E la mia luce li farà dialogare, sarà il collante che genera l’emozione. Quando ho incontrato i cantanti ho chiesto di essere sé stessi. Non verranno truccati, saranno cantanti veri che devono dedicarsi unicamente alla voce. Non devono mettersi a gesticolare, a recitare, a fare finta di essere attori: il cantante deve fare il cantante, l’attore fa l’attore, il teatro fa il teatro. Le finzioni e gli artifici non mi piacciono nell’opera lirica, gli spari, le spade… è abbastanza ridicolo vedere uno che fa finta di uccidere un altro con una spada di plastica. Penso che l’opera lirica oggi debba vivere unicamente dei suoi grandi valori intrinseci: il canto e la musica».
Parlando entriamo in una stanza dalle tonalità arancioni e intense. Ci troviamo di fronte ad
apollo lucente (280 centimetri per 100 per 270), un’opera che ha due minuti di movimento e che è stata esposta alla Biennale Architettura di Venezia. «Il dio Apollo che ruba il sole al suo popolo...», dice marionanni. «Volevo ricreare la luce dell’aurora. Usando una luce colorata non funzionava, quindi ho usato quelli che sono ancora i principi guida di Leonardo, che intuì che quando la luce riflette su una superficie colorata questa luce si modifica a sua volta e assume un colore ancora diverso. La luce arancione qui la ottengo per riflesso e uso la luce bianca per creare».
È attratto però profondamente anche dalla luna, marionanni. Uno dei suoi bozzetti (foto grande sopra) per Luisa Miller la rappresenta in tutte le sue manifestazioni. «Di giorno c’è la luce del sole, di notte c’è la luce della luna. Qual è la luce giusta? Io rispondo: una luce che ritrovi l’alternanza naturale di alba e tramonto». In un altro bozzetto (foto a sinistra) spiccano i colori azzurro, blu e giallo. Ma non sono legati all’Ucraina. Il giallo e il blu sono semplicemente i suoi colori preferiti, perché il giallo è il colore della luce e il blu è il colore del buio. Chiaro e scuro si alternano anche nel nostro percorso fra le sue opere. «Un periodo che mi ha sempre affascinato è quello rinascimentale. Lì si comincia a capire che bisogna lavorare con la luce su più soggetti all’interno di un quadro bidimensionale. Per accedere alla tridimensionalità, bisogna inserire più sorgenti luminose all’interno del quadro».
Gli chiediamo della sua formazione. Ride. «Sono un elettricista e la cosa più incredibile è che molti pensano che io lo dica per snobismo, invece l’è propri acsè (è proprio così, in dialetto romagnolo, ndr). Il passaggio tra l’elettricista e l’artista? Non c’è mai stato e mai ci sarà». È uno che sa e vuole usare le mani, marionanni. Ce le mostra. «Vengo da una famiglia poverissima. Mio padre aveva la tessera di povertà quando in tutto il comune c’erano solo due famiglie a possederla. Ma io ho lavorato sempre solo per il mio piacere. Forse questo è il segreto: lavorare sulle cose che piacciono e avere il coraggio di continuare a farlo».
Tra i suoi maestri indica il fotografo Gabriele Basilico («mi ha fatto capire il dettaglio, l’ascolto e la lettura del momento») e il designer Ag Fronzoni («da lui ho imparato il valore della progettazione»). E se gli chiediamo quale Luisa Miller abbia apprezzato, cita quella del 1976 alla Scala con Luciano Pavarotti e Montserrat Caballé. Al momento della nostra conversazione non aveva ancora incontrato Daniel Oren: «È un maestro che ascolto da sempre con grande piacere ma soprattutto con grande interesse. Ha carisma e una carica emotiva straordinaria. Sarà il mio protagonista: lui, l’orchestra e il canto».
Sostiene che bisogna «far vivere lo spettatore all’interno dell’opera». E poi accenna alla scenografia: «Ci saranno pochissimi elementi. Un tavolo per esempio, che è uno degli oggetti con i quali ognuno di noi vive e convive per molto tempo. Nell’opera la divisione di classe non è urlata, ma c’è, e la gente la deve intuire: sarà rappresentata anche sul palcoscenico, da un albero collocato sulla sinistra e un trono, una grande seggiola, posta sulla destra a rappresentare il potere. Saranno gli elementi forti, assieme a un grande lampadario che è un po’ la mia macchina di scena, la mia firma. Ho realizzato anche dei gioielli che sto costruendo con l’orafo Massimo Izzo. Sono elementi luminosi, simbolici, Luisa si auto-illumina e io dalla regia la controllo. Ho scritto l’intero spettacolo con la luce che diventa così l’unico strumento in grado di poter dialogare con tutti i materiali e con tutte le arti, che alla fine hanno bisogno del rapporto con la luce ed è questo che a me interessa. Cerco sempre di raccontare una storia attraverso la luce».
Colleghi che stima? «Ne ho due che sono il mio faro, e cerco di diventare sempre più bravo di loro. Studio e mi impegno per esserlo, ma ancora non ci sono riuscito. Continuerò però a farlo fino a che non ci riuscirò». Ma chi sono? «Si chiamano sole e luna».