Corriere della Sera - La Lettura
Nuovo cinema classico (da Hawks a Godard)
Alla fine vorresti che non finisse mai, che questo viaggio tra film e registi, storie e aneddoti, dive e comprimari proseguisse ancora, aggiungendo piacere al piacere, quello per un cinema che, nonostante gli anni grami che sembra vivere adesso, contagiato anche lui da qualche forma di Covid-19, continua a rinascere dalle sue ceneri ogni volta che una storia prende forma sullo schermo. Perché quando chiudi le 400 pagine di Short Cuts (Laterza) ti porti dietro l’impressione, davvero rinfrancante, che le storie di cinema che ti hanno accompagnato fin lì ne nascondano molte altre, quasi innescassero una reazione a catena. Merito della ricchezza inesauribile della storia del cinema, certo, ma merito soprattutto di Alberto Crespi, che ha abbandonato il suo abituale ruolo di critico cinematografico (lo è stato per «l’Unità», prendendo il posto che fu di Ugo Casiraghi, e lo è tutt’ora, dai microfoni di Hollywood Party su RadioTre) per prendere quello, qui davvero azzeccato, di cantastorie. Come lui stesso si autodefinisce.
L’idea è semplice e curiosa insieme: prendere un biennio fondamentale della storia del cinema — il 1959-1960 — e attraverso dodici film ripercorrere uno dei momenti nodali della cinematografia, il passaggio dal cinema «classico» al cinema «moderno». Ma non come farebbe un diligente studioso della materia, magari aspirante accademico, che finirebbe per perdersi tra teorie e interpretazioni, tra sfoggio di cultura e dimostrazioni (magari presunte) di genialità. No, Crespi vuole solo raccontare. Raccontare le tante cose che ha scoperto e imparato in tanti anni di amore per il cinema, fatto di