Corriere della Sera - La Lettura
Le storie sono il tessuto del mondo: ci tengono insieme. E ci salvano
Una grande scrittrice americana si interroga sul senso del narrare. Che ha a che fare con la trasformazione, persino con la manifestazione del divino, addirittura con la grazia
spirituali, poiché immaginarci profondamente immersi nella vita altrui è di per sé un impegno spirituale. Essere un autore di narrativa, o anche semplicemente un vero lettore di narrativa, significa comprendere che solo attraverso l’immaginazione si può giungere a certe verità intime e complesse. Se, come nelle opere di Faulkner, Camus o Beckett, non raggiungiamo mai la piena sensibilità religiosa, ci confrontiamo comunque seriamente con questioni dell’essere e della moralità, oltre a compiere una ricca e spumeggiante immersione nel mistero di ciò che significa essere un essere umano nel mondo. Come scrisse Thomas Merton, nel 1958, a Boris Pasternak, l’autore de Il dottor Živago: «Non insisto su questa separazione tra spiritualità e arte, poiché ritengo che anche le cose che non sono manifestamente spirituali se giungono dal cuore di una persona spirituale diventano spirituali».
O, come ha detto Papa Francesco: «Ogni storia umana è, in un certo senso, storia divina». Le storie migliori sono veritiere: perfino le favole, come quelle dei Grimm o di Hans Christian Andersen, sono ricettacoli di un certo tipo di verità, mentre anche i racconti popolari riescono a offrirci una comprensione complessa e dettagliata di astrazioni esperienziali che si sono giocate sul campo del tempo, intendimenti difficili da ottenere in qualsiasi altro modo. Da un punto di vista: un racconto antico come Robinson Crusoe era coinvolgente — quasi una vita alternativa — per i lettori dell’inizio degli anni Settanta del Diciottesimo secolo, che in prevalenza vivevano e morivano senza allontanarsi più di 50 miglia da casa, in un tempo precedente ai film o alla fotografia, e che per la maggior parte non avevano mai visto l’oceano e di certo non avevano mai avvistato una testuggine marina e non erano naufragati su un’isola deserta.
Da un punto di vista totalmente diverso: operando su molteplici piani complessi, e senza necessariamente averne l’intenzione, con un romanzo come Delitto e castigo Fëdor Dostoevskij ci aiuta a conoscere di prima mano le ripercussioni intricate, contorte e vaste dell’assassinio — perfino dell’assassinio di una persona apparentemente inutile — al di là dell’evidente rischio di una punizione comminata delle leggi civili. La scrittrice brasiliana Clarice Lispector, nel suo ultimo racconto L’ora della stella, chiede: «Chi non si è mai domandato: sono un mostro o è questo che significa essere una persona?». Sotto alcuni aspetti, Delitto e castigo nella sua interezza è una risposta di 450 pagine a tale domanda. Ma essere gettati — a capofitto e con violenza — nel delirio della colpa e redenzione di Raskol’nikov significa vedere anche che sono in gioco altre leggi più profonde, ben oltre la portata temporale delle forze di polizia di San Pietroburgo.
Goethe propone l’idea della storia come tessuto attraverso la sua metafora del filo scarlatto, che spiega citando un’usanza della marina britannica: «Tutto quanto il