Corriere della Sera - La Lettura
Il Mediterraneo disuguale
La mappa del «nostro mare» si è spezzata: Paesi ricchi e Stati poveri sono sempre più lontani, europei benestanti e migranti disperati sempre più divisi. Vivere lungo le stesse acque non basta: «Un fratello che vuole alzare un muro contro di te non è un buon fratello», dice il Nobel turco Orhan
Pamuk, 70 anni il 7 giugno, che il 28 maggio riceverà il Premio Costa Smeralda. Con «la Lettura» parla di guerra e confini, di arte, del Museo dell’innocenza che continua a crescere, del nuovo libro e del potere della letteratura, «che non deve per forza dare lezioni»
Condividono lo stesso mare, nient’altro. Paesi avanzati e nazioni arretrate, popoli delle classi alte e vicini miserabili, padroni e poveracci. La mappa si è rotta, spezzata. Disegna fratture e divisioni. Il Mediterraneo oggi non è culla di niente. Di disuguaglianze, forse. Altro che famiglia. «Il fratello ricco non è un fratello vero».
È seduto al tavolo di lavoro, nel suo studio affacciato sul Bosforo, sullo stretto che unisce Occidente e Oriente, in quella città sospesa che è Istanbul, protagonista favolosa e contraddittoria dei suoi libri. Orhan Pamuk osserva le navi passare, «di quel passato — continua — restano gli scambi commerciali. Ma assistiamo a un’estrema divisione». Il Nobel per la Letteratura (dell’anno 2006) sabato 28 maggio riceverà il riconoscimento internazionale del Premio Costa Smeralda: lui che nel Mediterraneo «sente il suo corpo a casa», che ama scrivere di sentimenti e paure umane e dunque, inevitabilmente, di politica, con «la Lettura» ragiona di guerra e migrazioni, di ingiustizie e odi atavici, di Putin e Dostoevskij, di interessi geostrategici ed economici, ma anche del potere della parola e dell’immagine, del suo lavoro di artista e dei prossimi libri, di Antoni Gaudí e Anselm Kiefer, di Sally Rooney e Zadie Smith. Di un discreto ottimismo che in questi giorni, quasi settantenne (è nato il 7 giugno 1952), lo pervade: «Qui al piano di sotto stanno lavorando». A cosa?
«Quattro architetti sono arrivati dalla Germania. Sono da me per il Museo dell’innocenza, è il suo decimo anno, stiamo realizzando otto nuove vetrine: faccio simultaneamente arte e letteratura».
Breve riassunto: Il Museo dell’innocenza è un romanzo di Pamuk del 2008. Racconta lo struggente amore (ambientato a Istanbul negli anni Settanta del Novecento) tra Kemal e Füsun; nel 2012 quella storia è diventata — tra l’altro — un museo nel cuore della città in cui lo scrittore ha raccolto con furia classificatoria gli oggetti che hanno a che fare con quell’avventura: l’intento è arrivare a 83 teche (contengono di tutto, ritagli di giornale, posate, bottiglie, scarpe, biglietti, vasi, block notes, fiammiferi), tante quante i capitoli del libro. Dalla moschea poco distante parte il richiamo del muezzin. Cosa preferisce fare? Arte o letteratura?
«Amo tenermi impegnato. La mattina lavoro intensamente con la squadra di designer. Raccogliamo gli oggetti che secondo noi vale la pena esibire, poi mi occupo della loro disposizione nelle vetrine che la squadra sta trasformando in sculture aggiungendo colori e dettagli. Sono anche docente alla Columbia University di New York e sto rivedendo una sceneggiatura tratta da uno dei miei romanzi che dovrebbe, potrebbe, diventare una serie. Faccio molte cose, è una scelta e mi piace perché mi tengo alla larga dalla noia della vita quotidiana». Tra pochi giorni volerà verso la Sardegna. Le motivazioni del premio dicono: «Pamuk rinnova oggi la figura e il ruolo dello scrittore e si muove, nello scenario millenario del Mediterraneo, come una personalità che mischia tutte e ciascuna delle sue valenze. Ci ricorda che l’artista e lo scrittore si incaricano di rivelare, non rinnegando il passato ma cercando di capirlo e interpretarlo, tracce di futuro e scenari di possibilità. Le sue parole e le sue immagini sono un monito e un esempio di qualità, di umanità, di stupore: è questo che chiediamo ai modelli. E lui certamente è uno». La lezione del Mediterraneo vale ancora in questi tempi bui?
«La lezione ci sarebbe, ma dobbiamo ammetterlo: il Mediterraneo oggi non ha più l’unità di una volta. C’è stato un tempo in cui i Romani, gli antichi Egizi, i popoli del Sud della Francia cucinavano, mangiavano, viaggiavano in modo simile e infatti pensavano in modo simile. Ora invece, e questo è successo negli ultimi duecento anni, le differenze sono profonde: nel Mediterraneo coesistono upper class e lower class. Abbiamo un Mediterraneo ricco composto da Francia, Spagna e membri dell’Unione Europea e un Mediterraneo povero. Algeria, Egitto... Non li puoi paragonare solo perché condividono lo stesso mare. Lo stile di vita, i problemi, l’ansia di egiziani e francesi non sono gli stessi. Lo erano una volta quando condividevano cibi e pensieri sotto l’Impero romano e in qualche modo anche durante quello Ottomano. Ma non è più così, quell’unità si è persa per questioni essenzialmente materiali e lo vediamo tutti i giorni: uomini e donne del Mediterraneo povero attraversano il loro mare, rischiano la vita perché vogliono raggiungere la libertà e le possibilità economiche delle sponde settentrionali. Purtroppo è così, non c’è più condivisione. Sfortunatamente the map is broken (la mappa si è rotta)». E la memoria comune?
«È bello ricordarla, ma non è convincente ora. Come possiamo dire “siamo uguali” quando invece non lo siamo per niente? Guardiamo solo israeliani e palestinesi: si odiano. La memoria non è il problema. Il problema è il reddito pro capite, è la differenza tra classi sociali. E la cosa non si può risolvere guardando indietro. A me, per esempio, il Mediterraneo ricorda l’infanzia dell’umanità. Vado a Creta, il sole è africano, la qualità delle strutture europea, i luoghi sono splendidi, emergono le orme delle antiche civiltà. Amo Creta. E infatti nel romanzo che in Italia uscirà a settembre, Le notti della peste, rac
conto le vicende di un’isola immaginaria che in parte è ispirata a Creta. Cosa mi piace dell’isola: il clima, non fa freddo, posso nuotare per cinque-sei mesi all’anno; poi la pesca tradizionale, i fichi e gli ulivi. Lo storico Fernand Braudel usò queste piante per definire i confini del Mediterraneo. Mi piace farne parte, il mio corpo è a casa, ma queste non sono soluzioni ai problemi economici. Non esiste uguaglianza nel Mediterraneo se i popoli del Sud vanno a Nord per cercare lavoro, e non possiamo andare avanti a dirci che siamo tutti fratelli perché non lo siamo. Un fratello che vuole alzare un muro contro di te e ti dice di restare a casa tua non è un buon fratello».
Pochi mesi fa, in un’intervista al «Corriere della Sera», lei ha detto che stiamo sprofondando in un nuovo Medioevo. «Mi riferivo alla guerra di Putin. Nel frattempo però la Russia non ha vinto...».
Ottimista?
«Diciamo che il mondo occidentale ha dato inaspettatamente prova di unità. L’America da sola ha versato qualcosa come 45 miliardi di dollari per l’Ucraina, l’Unione Europea ha dato il suo contributo. E poi tattica, informazioni, strategia. Il risultato è che Putin non ha vinto la guerra con la facilità che si aspettava. A questo si è aggiunta la lezione di coraggio, combattività, sacrificio, eroismo degli ucraini. Spero che tutto questo funzioni.
È vero, ero più preoccupato all’inizio della guerra. E continuo a temere la bomba atomica. I russi però hanno fatto sapere che non la useranno, mi sembra un buon risultato». Lei crede che la letteratura possa essere uno strumento, un’«arma» nella risoluzione del conflitto?
«Non mi piace accostare le parole arma e letteratura. Mentre le armi esplodono rumorose, la letteratura funziona sulla lunga distanza. È un’associazione che non amo perché non condivido l’idea di scrittura “funzionale” a qualcosa. La letteratura non deve per forza trasmettere ideali, o insegnare. Io scrivo per esprimere me stesso, non per convincere qualcuno. Questo è invece quello che pensano le persone che leggono poco: si immaginano che i libri abbiano a che fare con la trasmissione di modelli. Ma non è necessariamente così». Per cosa si scrive?
«Per tanti motivi che non fermeranno la guerra. E che non contengono una “lezione”. Prendiamo Dostoevskij: non insegna nulla di politicamente corretto, eppure dice qualcosa di estremamente profondo a proposito del cuore umano. Che poi era anche antisemita e pure un po’ matto... Però leggendolo si impara così tanto sull’animo umano. Ripeto, la letteratura non vuole rendere
tutti carini e gentili. Anche se forse lo fa, perché esprime il senso delle sofferenze altrui, e allora se ami leggere non fai del male, non ti fai nemici. E magari sviluppi i tuoi talenti perché sai identificarti negli altri. E così ti rendi conto che la gelosia, l’amore, l’odio, il desiderio di fare soldi e sesso, il dolore sono comuni a ciascuno di noi. Michel de Montaigne, che ha inventato la letteratura moderna, ci ha insegnato a capire gli altri e a tollerarli perché sono esattamente come noi».
A proposito di Dostoevskij, lei anni fa disse che capiva il risentimento dello scrittore russo nei confronti dell’Occidente. Prova ancora questi sentimenti?
«Dostoevskij odiava l’Occidente, ma lo amava con uguale intensità. Non si possono separare le due cose. Mi spiego meglio: Dostoevskij adorava scrivere a BadenBaden, in Germania. Gli piaceva la Svizzera. E ogni volta che andava in Europa ne tornava distrutto, devastato da un’esperienza di amore e odio. Ma cos’era questo amore? Analizziamolo bene: lui voleva che la Russia fosse come le nazioni che visitava nei suoi viaggi a ovest: altrettanto civilizzata, ricca, pulita, popolata da gente gentile in un’atmosfera pacifica, civile, raffinata. Ebbene, io capisco questi stati d’animo: ammiri un Paese, lo ami, ma visto che non puoi godere di quel progresso a casa tua allora inizi a covare la rabbia. Che poi pensiamo a Napoleone: fece con la Russia la stessa cosa che sta facendo Putin con l’Ucraina, e per questo i russi lo odiavano; o prendiamo la Turchia che ha avuto non pochi problemi con l’Europa. Ma torniamo a Dostoevskij: il suo odio non è fondato unicamente su sentimenti nazionalisti, è più profondo. Ingegnere, aveva tradotto Balzac, era un dandy ultra occidentalizzato anche se poi con gli anni prese tutt’altra direzione. Mentre condivido i miei sentimenti con lui mi trovo ad analizzare me stesso». E cosa trova?
«Una vicinanza maggiore con un altro scrittore». Chi? «Il giapponese Jun’ichiro Tanizaki (1886-1965). In gio
ventù era stato un fervente ammiratore della società americana. Come Naomi, la protagonista del suo romanzo L’amore di uno sciocco, una ragazza ossessionata dall’estetica occidentale. Con l’età però l’autore abbandonò certe fascinazioni esterofile e scelse posizioni più tradizionaliste, riscrisse anche il Genji monogatari, pietra miliare della letteratura nipponica che risale all’XI secolo. Non diventò però un antioccidentale come Dostoevskij: era una persona gentile, studiava l’architettura, la cultura, la letteratura del suo Paese. Ecco perché dico che mi sento più vicino a lui, anche se continuo a nutrire il desiderio giovanile che un giorno la Turchia possa fare parte dell’Unione Europea. Sfortunatamente non credo che questo succederà a breve, ma sono convinto che sarebbe una buona cosa. Alla fine degli anni Novanta e nei primi Duemila mi sono speso su questi temi, ma cambiamo argomento...».
Parliamo di Istanbul allora. La regina delle sue storie.
«Ah sì la mia città, con questa vista meravigliosa». (Pamuk sposta lo schermo del computer per inquadrare lo spettacolo che si vede dalla finestra: il mare, i minareti, il cielo azzurrissimo). Sono privilegiato: vivere qui è il più grande dono della mia vita».
Come ha influenzato la sua poetica?
«Se per settant’ anni vivi nello stesso luogo è normale che i tuoi libri parlino di quello. Sono legato alle strade della mia città perché qui sono entrato in contatto con l’umanità. Mi chiamano lo scrittore di Istanbul: non mi ero reso conto di esserle così legato finché i miei libri non sono stati tradotti all’estero. Ne ho preso coscienza solo allora. E ho intitolato il primo volume del mio memoir Istanbul. Prima della mia generazione gli scrittori turchi scrivevano di pastori e padroni, di povertà e immigrazione. Io ero più borghese rispetto a loro. Ora siamo quasi tutti “scrittori di Istanbul”».
Ma che città è oggi? Europea, orientale, globale?
«È tutto questo insieme. Soprattutto globale. Abbiamo assistito a tanti cambiamenti demografici. L’immigrazione interna dalle parti più povere del Paese negli anni Cinquanta e Sessanta. Poi, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, l’arrivo di uomini e donne da Georgia, Armenia, Romania. Negli anni Duemila è stata la volta degli immigrati dai Paesi di lingua araba. Dal 2010 ecco i cinesi e gli asiatici, anche come turisti — amano il Museo dell’innocenza — mentre i nordeuropei, spaventati dall’atteggiamento di Erdogan nei loro confronti (come stiamo vedendo in questi giorni dopo la richiesta di adesione alla Nato da parte di Finlandia e Svezia, ndr), sono spariti. Quel vuoto però è stato colmato dai mediorientali. Da qui passano popoli, tribù, religioni. La città cambia di continuo e questo la rende interessante. Non dimentichiamo poi che la Turchia è il Paese con il maggior numero di rifugiati al mondo, oltre quattro milioni, che una volta erano accolti gioiosamente da Erdogan, mentre adesso è tutto cambiato, visto che il nostro Paese sta “producendo” gente come Marine Le Pen. E così, dopo otto anni di “benvenuto”, i Marine Le Pen turchi stanno facendo i loro affari...».
Cosa pensano i turchi della guerra in Ucraina?
«Da tenere sempre a mente: i russi sono stati per 500 anni i peggiori nemici dei turchi. La Turchia ha aderito alla Nato nel 1952 perché Stalin minacciava di riprendersi le città di Kars e Ardahan. Ha chiesto e ottenuto protezione. Esattamente come l’Ucraina avrebbe dovuto fare due-tre anni fa. Ricapitolando: c’è Erdogan, che tutto sommato si sta comportando da partner leale della Nato, ma non lo dice troppo ad alta voce per non irritare gli estremisti islamici che potrebbero accusarlo di sottomissione all’imperialismo americano; poi ci sono i fondamentalisti che stanno con la Russia e come Marine Le Pen si fanno prestare soldi da Putin; e ci sono anche i nostalgici di sinistra che odiano la civiltà occidentale qualunque sia il loro gruppo marxista di riferimento. Infine ci sono gli opportunisti. Dicono: possiamo vendere armi all’Ucraina e accogliere nei nostri porti gli yacht degli oligarchi. Non hanno ideali, vedono solo possibilità di business».
Si guarda allo specchio: cosa vede? L’artista o lo scrittore?
«Più divento vecchio, più vedo l’artista. Ho così tanti progetti... Poi certo, sono uno scrittore e quando ho qualche preoccupazione penso: perché non lo segno sul mio diario? È anche questa una cura ai problemi quotidiani.