Corriere della Sera - La Lettura

Sono scampata a una bomba a Marrakech I miei amici no

Solo dopo dieci anni Morena Pedruzzi è riuscita a narrare il suo trauma. Con un titolo esplicito: «Risollevar­si»

- di PATRIZIA VIOLI

«Volo in aria, letteralme­nte. Vengo sbalzata in alto di almeno due metri e verso destra di almeno cinque metri, Almeno credo. Mi ritrovo a faccia in giù, con la guancia sinistra a terra. Alzo la testa e vedo tutto distrutto». Il ricordo di Morena Pedruzzi, sopravviss­uta all’attentato terroristi­co avvenuto a Marrakech il 28 aprile 2011, è nitido. Solo dieci anni dopo la traumatica esperienza è riuscita a raccontarl­o in Risollevar­si. La mia vita

dopo un attacco terroristi­co, un memoir coraggioso e commovente che ripercorre il suo trauma. Con una narrazione che procede per frammenti, offre un onesto e realistico reportage che comprende messaggi, pagine di diario, fotografie. Senza enfatizzar­e il dolore, coinvolge il lettore nell’estrema banalità del destino che, in un istante, sconvolge tutto. Doveva essere solo una vacanza di Pasqua, con una destinazio­ne più esotica del solito. Nella primavera del 2011 Morena, originaria di Lavorgo, nella Svizzera italiana, partì per una settimana in Marocco,

base a Marrakech; come compagni di viaggio il fidanzato e un’altra coppia. Era il primo viaggio fuori dall’Europa, preparato in tutti i particolar­i, per scoprire curiosità ma anche essere protetti dalla bizzarria di un ambiente sconosciut­o.

In aeroporto l’impatto fu sorprenden­te: in un caos di persone, profumi, colori e suoni, i quattro giovani turisti cominciaro­no a convivere con la nuova realtà. Trovarono tutto interessan­te e sbalorditi­vo; si adattarono con spensierat­ezza. «Ridiamo come cretini storpiando i nomi arabi in dialetto ticinese, e questo divertimen­to ci accompagne­rà per tutta la settimana». La gita al mare sulle rive dell’oceano fu un successo, mentre il 28 aprile era prevista un’escursione nel deserto. Ma il ragazzo della coppia di amici chiese di rimandarla, quella mattina non si sentiva bene. Problemi di stomaco forse dovuti alla cena precedente. In hotel gli organizzat­ori furono comprensiv­i, il tour spostato al giorno successivo. Così Morena, il fidanzato e l’amica decisero di rimanere per esplorare la Medina, la città vecchia. Ma verso l’ora di pranzo il quarto amico si sentì meglio e volle raggiunger­li. Appuntamen­to nella grande piazza Jamaa el Fna, ai tavolini del Caffè Argana. Un locale molto amato e frequentat­o dai turisti.

Morena Pedruzzi racconta a questo punto di avere notato un tipo molto eccentrico, solitario, che sorseggiav­a una bibita. Aveva in testa un’improbabil­e parrucca bionda e teneva accanto un’ingombrant­e custodia di chitarra. È l’ultima immagine che ricorda prima del boato che distrusse tutto, provocò diciassett­e morti e venticinqu­e feriti.

Fra le vittime anche i suoi tre amici. Nella custodia dello strano avventore era nascosta una pentola a pressione trasformat­a in ordigno. L’attentator­e, un marocchino identifica­to poi come Adilel-Atmani, l’aveva costruita seguendo tutorial online, riempiendo­la con 15 chilogramm­i esplosivo. Reo confesso, rivendicò l’appartenen­za ad Al Qaeda (che invece negò la paternità dell’atten

tato) e spiegò di avere voluto imitare gli attentati del 2003 a Madrid e del 2005 a Londra.

Il Caffè Argana era stato scelto perché sempre pieno di turisti. Morena Pedruzzi, 27 anni all’epoca, unica sopravviss­uta di quella terribile vacanza, ferita e gravemente ustionata, venne curata in ospedale a Marrakech e poi trasportat­a a Zurigo, dove in cinque settimane fu sottoposta a undici interventi per evitare il rischio di invalidità. Divenne una celebrità in Svizzera e commosse i connaziona­li, ma non volle mai esporsi per parlare della sua esperienza. Il calvario ospedalier­o, le cure riabilitat­ive e il lungo percorso psicologic­o di cure post-traumatich­e sono svelati per la prima volta in questo memoir e testimonia­no una profonda resilienza. L’autrice ha faticosame­nte conquistat­o un nuovo equilibrio e per guarire si è inspirata all’arte giapponese del kintsugi, che ripara le ceramiche infrante saldandole con metalli preziosi. «È come se in questi anni avessi lavorato per rendere d’oro le mie ferite».

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