Corriere della Sera - La Lettura
Sono scampata a una bomba a Marrakech I miei amici no
Solo dopo dieci anni Morena Pedruzzi è riuscita a narrare il suo trauma. Con un titolo esplicito: «Risollevarsi»
«Volo in aria, letteralmente. Vengo sbalzata in alto di almeno due metri e verso destra di almeno cinque metri, Almeno credo. Mi ritrovo a faccia in giù, con la guancia sinistra a terra. Alzo la testa e vedo tutto distrutto». Il ricordo di Morena Pedruzzi, sopravvissuta all’attentato terroristico avvenuto a Marrakech il 28 aprile 2011, è nitido. Solo dieci anni dopo la traumatica esperienza è riuscita a raccontarlo in Risollevarsi. La mia vita
dopo un attacco terroristico, un memoir coraggioso e commovente che ripercorre il suo trauma. Con una narrazione che procede per frammenti, offre un onesto e realistico reportage che comprende messaggi, pagine di diario, fotografie. Senza enfatizzare il dolore, coinvolge il lettore nell’estrema banalità del destino che, in un istante, sconvolge tutto. Doveva essere solo una vacanza di Pasqua, con una destinazione più esotica del solito. Nella primavera del 2011 Morena, originaria di Lavorgo, nella Svizzera italiana, partì per una settimana in Marocco,
base a Marrakech; come compagni di viaggio il fidanzato e un’altra coppia. Era il primo viaggio fuori dall’Europa, preparato in tutti i particolari, per scoprire curiosità ma anche essere protetti dalla bizzarria di un ambiente sconosciuto.
In aeroporto l’impatto fu sorprendente: in un caos di persone, profumi, colori e suoni, i quattro giovani turisti cominciarono a convivere con la nuova realtà. Trovarono tutto interessante e sbalorditivo; si adattarono con spensieratezza. «Ridiamo come cretini storpiando i nomi arabi in dialetto ticinese, e questo divertimento ci accompagnerà per tutta la settimana». La gita al mare sulle rive dell’oceano fu un successo, mentre il 28 aprile era prevista un’escursione nel deserto. Ma il ragazzo della coppia di amici chiese di rimandarla, quella mattina non si sentiva bene. Problemi di stomaco forse dovuti alla cena precedente. In hotel gli organizzatori furono comprensivi, il tour spostato al giorno successivo. Così Morena, il fidanzato e l’amica decisero di rimanere per esplorare la Medina, la città vecchia. Ma verso l’ora di pranzo il quarto amico si sentì meglio e volle raggiungerli. Appuntamento nella grande piazza Jamaa el Fna, ai tavolini del Caffè Argana. Un locale molto amato e frequentato dai turisti.
Morena Pedruzzi racconta a questo punto di avere notato un tipo molto eccentrico, solitario, che sorseggiava una bibita. Aveva in testa un’improbabile parrucca bionda e teneva accanto un’ingombrante custodia di chitarra. È l’ultima immagine che ricorda prima del boato che distrusse tutto, provocò diciassette morti e venticinque feriti.
Fra le vittime anche i suoi tre amici. Nella custodia dello strano avventore era nascosta una pentola a pressione trasformata in ordigno. L’attentatore, un marocchino identificato poi come Adilel-Atmani, l’aveva costruita seguendo tutorial online, riempiendola con 15 chilogrammi esplosivo. Reo confesso, rivendicò l’appartenenza ad Al Qaeda (che invece negò la paternità dell’atten
tato) e spiegò di avere voluto imitare gli attentati del 2003 a Madrid e del 2005 a Londra.
Il Caffè Argana era stato scelto perché sempre pieno di turisti. Morena Pedruzzi, 27 anni all’epoca, unica sopravvissuta di quella terribile vacanza, ferita e gravemente ustionata, venne curata in ospedale a Marrakech e poi trasportata a Zurigo, dove in cinque settimane fu sottoposta a undici interventi per evitare il rischio di invalidità. Divenne una celebrità in Svizzera e commosse i connazionali, ma non volle mai esporsi per parlare della sua esperienza. Il calvario ospedaliero, le cure riabilitative e il lungo percorso psicologico di cure post-traumatiche sono svelati per la prima volta in questo memoir e testimoniano una profonda resilienza. L’autrice ha faticosamente conquistato un nuovo equilibrio e per guarire si è inspirata all’arte giapponese del kintsugi, che ripara le ceramiche infrante saldandole con metalli preziosi. «È come se in questi anni avessi lavorato per rendere d’oro le mie ferite».