Corriere della Sera - La Lettura
Catastrofi(sti) L’ultimo uomo non è mai solo
Il primo a immaginare in chiave letteraria un’estinzione universale fu nel 1805 il curato francese Jean-Baptiste Cousin de Grainville. Da allora, passando anche per Lord Byron e Mary Shelley, il filone dello spopolamento della Terra non è mai tramontato
Ci stiamo avvicinando al giorno della nostra estinzione? Con l’avvento dell’Antropocene l’umanità comincia a prendere reale coscienza del proprio impatto sul pianeta, e con ciò a considerare anche la possibilità della propria fine. Ma quando ha inizio, di preciso, l’Antropocene? Il «cambio di era geologica» che stiamo vivendo non è necessariamente un fatto recente: se ci sono teorici che si spingono a fissare il suo inizio addirittura millenni fa, con la scoperta e la susseguente diffusione dell’agricoltura, molti concordano nel farlo coincidere con l’ingresso nell’era industriale.
Non stupisce, allora, che le narrazioni comprese nel cosiddetto filone del Last man on Earth, l’ultimo uomo sulla Terra, comincino a far capolino a inizio Ottocento. Il primo testo in assoluto che si confronta con la possibilità di un solo essere umano rimasto sul pianeta è infatti datato 1805: si tratta di Le dernier homme, del curato francese Jean-Baptiste Cousin de Grainville, un poema in prosa pubblicato postumo, dopo il suicidio dell’autore, seguito a un periodo di grande disperazione.
Se quello di Cousin de Grainville è un nome ormai noto solo agli studiosi di speculative fiction — il suo poema costituisce anche uno dei primissimi esempi di fantascienza in senso generale — non è invece il caso del celeberrimo Lord Byron, che arriva ai medesimi temi 11 anni più tardi, con il poema Darkness, licenziato alla fine del 1816, noto come «l’anno senza estate» per le temperature glaciali che causarono morti e carestie in ogni parte del globo. Scriveva Byron (la traduzione è del poeta Federico Italiano): «Ebbi un sogno che non era solo sogno./ Il sole radioso s’era spento e le stelle/ erravano oscure nello spazio eterno,/ perdute e senza raggi; la terra gelata/ ruotava abbuiandosi nell’aria illune; venne/ il mattino, svanì e tornò, ma senza portare giorno./ Gli uomini dimenticarono le loro passioni/ nel terrore di questa loro desolazione, e il cuore/ d’ognuno raggelò in un’egoistica supplica/ per riavere la luce: si viveva tutti/ in bivacchi e — troni, palazzi reali, capanne — ogni/ genere d’abitazione venne bruciato per schiarire/ le tenebre, intere città furono incenerite;/ e attorno ai roghi si strinsero gli uomini/ per guardarsi ancora una volta in faccia».
Sia pur mediati da una sensibilità romantica, ci sono già tutti gli elementi della futura «letteratura degli ultimi uomini sulla Terra», e anche in questo caso, oltre alla temperie dell’epoca, fu il dramma personale a evocare immaginari così esiziali: Byron era reduce dalla separazione dalla moglie Anne Isabella Milbanke. Accade lo stesso alla grande Mary Shelley che, dopo aver contribuito a sua volta alla nascita di ben due generi della speculative fiction (il suo Frankenstein, del 1818, è considerato antesignano tanto della moderna fantascienza quanto dell’horror), perde il marito Percy Bysshe Shelley in un naufragio e, due anni più tardi, anche uno dei suoi più cari amici, proprio lo stesso Lord Byron. Decide così di cimentarsi col filone e scrive L’ultimo uomo, del 1826, romanzo in cui l’umanità viene sterminata da una pandemia. Il titolo è ripreso da quello di un poema sullo stesso tema firmato da Thomas Campbell nel 1823, che a sua volta ispirerà un quadro di John Martin, un libretto di William H. Calcott e un altro poema, stavolta di Thomas Hood: tutti del 1826, e tutti intitolati
The last man, l’ultimo uomo.
Dopo Mary Shelley è M.P. Shiel a riportare la fine dell’umanità nel romanzo, che comincia ad affermarsi come il genere più consono a questo tipo di storia: La
nube purpurea, testo ammiratissimo da H.P. Lovecraft (che si confronterà a sua volta col filone nel racconto Finché tutti i
mari..., scritto a quattro mani con il collega Robert Barlow), è del 1901. Qui è una nube venefica, incautamente riattivata da una spedizione artica, a porre fine al genere umano. Oltre mezzo secolo dopo, nel 1959, ne sarà tratto anche un film —
La fine del mondo di Ranald MacDougall — ma la misteriosa nube sarà sostituita da una guerra nucleare, più affine alle paure dell’epoca.
Se infatti nel 1935 arriva anche la prima «ultima donna sulla terra», con Woman Alive di Susan Ertz, e nel 1954 quello che, per maturità e nettezza, è considerato il romanzo centrale del filone (Io sono leggenda di Richard Matheson, dove a causare l’estinzione è un’epidemia di vampirismo), dopo la Seconda guerra mondiale e col successivo avvento dell’era atomica, anche la letteratura dell’estinzione si allinea alla nuova ombra dominante: quella di un conflitto nucleare che avrebbe come solo plausibile esito l’estinzione della razza umana.
Per almeno vent’anni, il filone si sovrappone al più ampio campo della letteratura post-apocalittica, non sempre con approcci pessimistici: un pianeta con pochissimi abitanti superstiti e una natura che rifiorisce potrebbe anche essere una sorta di paradiso, come avviene in Conan, il ragazzo del futuro, romanzo per ragazzi di Alexander Key, non molto noto ai lettori italiani, i quali tuttavia ne conoscono benissimo la storia, grazie alla struggente serie a cartoni animati dallo stesso titolo che Hayao Miyazaki trasse dal libro nel 1978 (varrà allora la pena ricordare anche Ken il guerriero, iconica serie tratta dall’omonimo manga di Buronson e Hara, del 1983, che pure ha contribuito a sensibilizzare gli spettatori italiani al tema dell’apocalisse prossima ventura).
Quattro anni dopo Miyazaki, il padre della fantascienza moderna Isaac Asimov decise di fare il punto della situazione con un’antologia, L’ultimo uomo sulla
Terra, curata assieme a Martin Greenberg e Charles Waugh. Ma quello che Asimov e i suoi colleghi non potevano sapere era che già nel 1973 uno dei picchi di questo filone o sottogenere, Dissipatio
H.G., veniva scritto nel nostro Paese. Scritto e non pubblicato, giacché il suo autore Guido Morselli, che in vita aveva collezionato solo rifiuti editoriali, si sarebbe ucciso poco dopo aver terminato quell’ultimo manoscritto. Il romanzo, che oggi fa buona mostra di sé nel catalogo Adelphi assieme al resto dell’opera morselliana, avrebbe visto la luce solo nel 1977, postumo, e gli americani avrebbero potuto ammirare la modernità e il nitore della visione dell’autore bolognese soltanto nel 2020, quando le edizioni della «New York Review of Books» lo avrebbero tradotto per la prima volta in inglese.
Con un canone così ricco, e una crisi ecologica e climatica in corso, non stupisce dunque che il sottogenere sia giunto in ottima salute fino ai nostri giorni, spesso incrociandosi col più ampio, e non meno fiorente, filone distopico. Non poteva non misurarsi con esso il «re» Stephen King, più spesso ricordato per il suo lavoro nell’horror, ma in grado di muoversi al massimo livello in tutti gli ambiti della speculative fiction: in effetti, il suo contributo alla letteratura degli ultimi uomini sulla Terra, L’ombra dello scorpione, è considerato dai suoi esegeti come uno dei suoi massimi risultati, non da meno del capolavoro It.
A far eco al «re», ecco quella che può a
«Dissipatio H. G.» di Guido Morselli, suicida subito dopo averlo completato, resta un capolavoro del genere, nel quale eccellono Stephen King e Margaret Atwood. Eppure non ci sono solo disastri: gli autori «solarpunk» confidano in una specie di lieto fine
ben diritto esser considerata la regina dei generi, Margaret Atwood, che ha declinato a modo suo il discorso in Oryx e Crake, recuperato nel 2021 da Ponte alle Grazie: probabile effetto della pandemia reale, visto che nel romanzo ce n’è una di finzione ad annientare l’umanità. Anche nel mirabolante mash-up di generi L’atlante
delle nuvole di David Mitchell, romanzo del 2004 che, a dispetto di un pessimo adattamento cinematografico, ha aperto a nuove possibilità di ibridazioni formali e tematiche, non possono mancare i last
men, stavolta sopravvissuti nell’arcipelago delle Hawaii a tre diversi gradi di sviluppo tecnologico. Alla pubblicazione dell’opera di Mitchell si fa convenzionalmente corrispondere l’emersione di una nuova generazione di scrittori fantastici e fantascientifici del Regno Unito, capaci di unire un’inventiva rutilante con uno stile di scrittura elevato e letterariamente consapevole; è allora doveroso citare Aliya Whiteley, che nella Bellezza, pubblicato in Italia, come tutti i suoi romanzi, dall’attenta casa editrice Carbonio, ha immaginato un mondo in cui la presenza degli uomini non è soltanto assai rarefatta, ma anche privata del genere femminile, reincarnatosi in strani funghi visionari...
Ma se questo è ciò che ci presenta l’estremo contemporaneo, potrebbe essere il caso di guardare anche sotto ai funghi, noto habitat del «piccolo popolo», e ritrovare così una delle più taglienti
Operette morali di Giacomo Leopardi, il
Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo,
del 1824, in cui i due esserini si confrontano proprio con l’estinzione della razza umana. Lo si può fare grazie all’antologia
Racconti del pianeta Terra curata da Niccolò Scaffai per Einaudi, che recupera questo e altri testi cruciali attorno al tema dell’Antropocene, sapientemente ordinati in un viaggio di allarmante efficacia (ne parla dettagliatamente Carmen Pellegrino nell’articolo qui sotto).
Va nella stessa direzione, con un deciso ottimismo, anche l’antologia Solarpunk pubblicata lo scorso anno da Le Mezzelane per la cura di Chiara De Giorgi: lungi dalle atmosfere cupe del cyberpunk, da cui questo nuovo movimento mutua il nome, gli autori solarpunk immaginano mondi in cui la pur rarefatta presenza umana ha ritrovato un equilibrio sostenibile. E in un caso o nell’altro, tutti questi racconti vengono a ricordarci che uno degli scopi della letteratura è, da sempre, quel lavoro sugli immaginari che risulta indispensabile per trovare vie d’uscita anche nella realtà — sempre che si sia ancora in tempo. © RIPRODUZIONE RISERVATA