Corriere della Sera - La Lettura
La battaglia dei marchi
Il prodotto «Swisse» che di svizzero non ha nulla; la birra «Bavaria» che non ha niente di bavarese (infatti è olandese); il burro spagnolo che si presenta come «La irlandesa»...
La storia dell’industria è anche una storia di marketing, di immagine, di promozione, di saccheggi intellettuali e commerciali: ricordate formaggi di varia provenienza venduti con l’etichetta «parmesan», lucrando sulla fama globale del «Parmigiano reggiano»? Con l’aiuto dell’avvocato Stefano De Bosio vediamo i casi recenti più clamorosi. A cominciare dall’amaretto Disaronno, dalla birra Budweiser e dal vino Duca di Salaparuta...
Chiedete una «Bud» a New York. Vi daranno una bottiglia ghiacciata. Sull’etichetta, lo storico claim: King of beers. Sopra, il marchio: «Budweiser». Chiedetela in un bar di Milano. Vi serviranno una bottiglia uguale. Stesso produttore, stessa birra, stessa etichetta: identica, fin nei minimi dettagli. Tutti tranne uno. Il nome. In Italia, e in molti Paesi d’Europa, la «Budweiser» viene venduta soltanto come «Bud».
Non è un diminutivo. Non è per comodità. Non è perché il nome ridotto sia d’uso comune per i consumatori. E neppure si tratta d’una scelta di marketing dell’azienda (Anheuser-Busch InBev, il colosso mondiale tra le multinazionali della birra). No, il cambio nome è l’esito d’una più che ventennale controversia legale iniziata a metà anni Novanta. E che s’è conclusa con la vittoria di una «piccola», antica birra boema, tradizione della cittadina ceca di Ceské Budejovice. Ai tempi dell’impero austro-ungarico, con nome tedesco (vivo ancora oggi) la città si chiamava Budweis. E da qui, la birra: «Budweiser Budvar» (un patrimonio nazionale in Repubblica Ceca).
Non è l’unica battaglia legal-commerciale in corso o da poco conclusa. Amaretto «Disaronno» contro il gigante della distribuzione Lidl. Vini «Duca di Salaparuta» contro Doc Salaparuta. Giuliani (l’azienda italiana famosa per l’«Amaro Giuliani» e creatrice del brand «Bioscalin») vs «Swisse» (che di svizzero non ha nulla). E ancora: i produttori della Baviera che hanno provato a tutelarsi (e hanno perso) contro la birra «Bavaria» (olandese). Autorità irlandesi che stanno facendo annullare il marchio di un burro spagnolo che, al pubblico, si presenta come «La irlandesa». Per non parlare di uno tra i più macroscopici «saccheggi» dell’industria alimentare mondiale: formaggi di varia provenienza venduti in tutto il mondo con l’etichetta «parmesan», lucrando sulla fama globale del «Parmigiano reggiano».
Entra e compra. Si gioca tutto in una frazione di secondo. Prezzo, packaging, pubblicità. Sul funzionamento della mente del consumatore si studia e si investono milioni: per capire come agisca, e soprattutto orientarne la scelte. Quel che non si vede sono le battaglie legali che stanno dietro alle controversie tra marchi. Contese locali e globali. Valgono decine o centinaia di milioni. Durano spesso decenni. Coinvolgono storie industriali e tradizioni artigianali, ricerca e design, creatività e management, territori e investimenti, geopolitica sotterranea. «Al fondo c’è sempre la tutela della creatività, che si esplica sia in un prodotto d’eccellenza, magari figlio di una tradizione secolare; sia nella proposta del prodotto sul mercato, che può diventare a sua volta elemento di creatività altrettanto eccellente e qualificante», riflette l’avvocato Stefano De Bosio, che negli ultimi decenni ha seguito alcune delle maggiori controversie in quest’ambito. «Il problema è che per queste creazioni e tradizioni può esserci sempre un usurpatore, che ne sfrutta la fama consolidata, si affianca sul mercato in modo ingannevole, gioca sui meccanismi subliminali del consumatore, facendo una leva sleale sul richiamo di un prodotto storico o di successo. Dannose orme di parassitismo».
Esistono conflitti di forma. I più semplici da identificare. «Disaronno» farà scuola. L’amaretto è un prodotto celebre, distribuito in 160 Paesi. La «sagoma» della bottiglia lo identifica. Forma rettangolare «a mattone», tappo grosso a prisma. Quella sagoma è l’immagine che ha creato l’icona, ormai anch’essa «essenza» del «Disaronno». Vari livelli di creatività, indissolubili. A un certo punto il colosso tedesco Lidl inizia a far produrre a Modena un amaretto che vende nei propri supermercati: e che nella confezione replicherebbe l’originale. Le cause passano fra Tribunale, Corte d’Appello di Milano, Cassazione. Contraffazione del marchio. Concorrenza sleale. Illva Saronno (assistita dai legali Stefano De Bosio e Giuliano Vecchione) vince i primi due gradi di giudizio contro Lidl Italia. La Cassazione stabilisce che anche per l’azione contro la casa madre tedesca a decidere sarà un giudice italiano. Quando inizia la causa, in ballo ci sono 11 milioni di bottiglie «copiate». E un primo effetto è già evidente: Lidl continua a vendere il suo liquore nella stessa bottiglia ma senza più il tappo.
Senza quell’elemento essenziale, non si può più parlare di «imitazione».
In altri casi, il conflitto non è di forma ma sul nome. La birra boema «Budweiser» è una Indicazione geografica protetta (dal 2003, Igp) riconosciuta in Italia dal 1967 (accordo di Lisbona). Il marchio del principale tra i produttori boemi fu registrato in Italia nel 1939. Era in commercio anche prima, soprattutto a Trieste e nei territori già austroungarici d’Italia. La «Budweiser» americana invece inizia a essere prodotta in Italia dalla «Peroni», su licenza, nel 1990. «È pacifico che il fondatore della produzione americana avesse inteso copiare la “Budweiser” boema, che dunque per forza preesisteva», racconta l’avvocato De Bosio.
A metà anni Novanta però gli americani vanno in tribunale. E con tre sentenze a favore nei tre gradi di giudizio (1998, 2000 e 2001) riescono a fare invalidare sia i marchi boemi sia la denominazione d’origine registrata nel ’67 (la tesi: la birra di Budweis-Budejovice non poteva godere di tutela in quanto riproducibile altrove). Nel 2001 la «Budweiser» boema sparisce dal mercato italiano. In quel momento l’avvocato De Bosio riceve il mandato per una causa che lo accompagnerà per buona parte della sua carriera.
Nel 2004 la Repubblica Ceca entra nell’Unione europea. E cambia lo scenario: la Ue dichiara la birra di Budweis-Budejovice Igp di diritto euro-unitario. Smentita per le sentenze italiane. Nel 2011 dunque la Corte d’Appello dichiara nullo il marchio americano, giudicato ingannevole per il pubblico quando fu registrato (anni Novanta). La Cassazione conferma. Nel 2014 il Tribunale di Milano invita «in via cautelare» al ritiro dal mercato della «Budweiser» americana. L’«invito» viene fatto dal giudice Fernando Ciampi, che l’anno dopo verrà ucciso, a Milano, durante una strage a Palazzo di Giustizia (una vicenda completamente scollegata).
Ma la controversia non termina qui. L’azienda americana sostiene che la Corte d’Appello di Milano abbia dichiarato ingannevole il marchio rispetto agli anni Novanta, ma non nell’attualità. Nel 2018 la Cassazione fa ripetere l’accertamento di ingannevolezza. Nel 2020 la Corte d’Appello di Roma dichiara il marchio americano ingannevole anche negli anni Duemila. La Cassazione conferma.
Ecco perché oggi, ciò che in America si chiama «Budweiser», in quasi tutta Europa deve chiamarsi «Bud». «Pende ora in Corte d’Appello di Milano — riassume l’avvocato De Bosio — il giudizio per il risarcimento e la definitiva inibizione dell’uso di “Budweiser” in Italia per la birra americana». Alla fine di queste interminabili controversie, si contano i danni. «Assisto non solo l’ente pubblico boemo, che ha perso l’80 per cento delle vendite pre-2001, ma anche i tre distributori italiani, due dei quali finiti in liquidazione o concordato a causa del blocco delle ven
dite conseguente ai vari provvedimenti».
Continua il legale: «La globalizzazione ha esacerbato a dismisura le forme di usurpazione ai danni di prodotti di eccellenza fuori dalla patria d’origine. Lo vediamo con il parmigiano, ma anche con il formaggio Asiago, o col marsala. Le ricadute sono vaste: dai guadagni indebiti, allo svilimento del prodotto d’eccellenza». Ecco perché qualcuno pensa che i consorzi di tutela delle indicazioni geografiche dovrebbero cambiare natura, e occuparsi di più degli indebiti sfruttamenti fuori dall’Italia. L’unico «consorzio» che ha un vero peso internazionale è quello dello champagne. Per il resto, le azioni più incisive di tutela dei marchi le fanno le multinazionali con i loro potenti uffici legali. Che però, ovviamente, si occupano solo dei propri prodotti.
Un altro livello di conflitto si può generare tra un marchio e una Doc. «Duca di Salaparuta» ha più di due secoli e ha fatto la storia del vino in Sicilia. Il titolo nobiliare è della famiglia Alliata, nobili toscani chiamati nell’isola nel Cinquecento per promuovere la viticoltura, illuminati nell’enologia e nella gestione sociale dell’impresa, spesso osteggiati dai latifondisti locali, creatori anche del marchio «Corvo», innovatori fino all’ultima discendente-imprenditrice, Topazia Alliata, madre di Dacia Maraini. Negli anni Sessanta l’azienda viene ceduta alla Regione Sicilia (che prosegue la spinta imprenditoriale) e nel 2001, in una procedura competitiva, viene acquistata proprio da Illva Saronno. Nel 2006 la Regione però fa una mossa: ottiene la registrazione di una nuova Doc. E come la chiama? «Salaparuta» (molto piccola, comprende solo l’omonimo Comune, nulla a che vedere con i territori del «Duca»). Il conflitto è nell’ordine delle cose. Nel 2016 «Duca di Salaparuta» inizia a percepire i danni: una Doc con lo stesso nome impedisce la registrazione di nuovi marchi e nuove etichette con l’elemento Salaparuta, e in certi casi addirittura l’uso del vecchio marchio «Salaparuta» (registrato tra l’altro in Europa proprio dalla Regione). Inizia la causa, in cui si chiede di invalidare la Doc Salaparuta come «imitazione illecita e sleale del marchio storico pre-esistente». La sentenza di primo grado, dell’anno scorso, galleggia tra due poli: non annulla, «sostenendo che le Doc anteriori al 2009 non si possano dichiarare nulle, anche se usurpano un marchio preesistente», ma condanna alcuni produttori per concorrenza sleale, perché avevano in etichetta «Salaparuta» troppo grande. La causa è ora in Corte d’Appello.
Esistono infine conflitti che non ruotano attorno all’imitazione. Giuliani ha inventato il marchio Bioscalin e i prodotti sistemici (integratori e altri) contro la caduta dei capelli, a cui si affiancano altri prodotti per la cura del corpo. Anche questa è una storia di azienda familiare italiana di lunghissima tradizione. Qualche anno fa però Giuliani si rende conto che a rosicchiare quote di mercato sempre più ampie è un nuovo marchio, «Swisse». Si scopre che è stato registrato anni prima (da un’azienda australiana, poi cinese) e che per lungo tempo è rimasto «in sonno». Poi, quando i prodotti arrivano in commercio, e iniziano ad avere diffusione, si constata che non hanno nulla a che fare con la Svizzera, «ma con tutta evidenza il marchio richiama — spiega l’avvocato De Bosio — il prestigio e la rinomata qualità dei prodotti svizzeri. Di fatto si tratterebbe di un’aggressione al mercato in forma ingannevole per i consumatori. Sul sito dell’azienda allora australiana si leggeva che il fondatore della “Swisse” aveva deciso questo nome, guarda caso, dopo avere visitato la Svizzera e constatato la qualità e reputazione della medicina naturale elvetica». Prima di andare dal giudice, è però necessario chiedere di invalidare il marchio. Per due volte l’Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale di Alicante lo ha dichiarato nullo, ora la controversia è alla Corte generale europea a Lussemburgo.