Corriere della Sera - La Lettura
Sanzioni, un’arma a doppio taglio
Le misure contro la Russia rientrano nella pratica di punire sul piano economico chi aggredisce uno Stato. Ma la storia insegna che spesso l’embargo danneggia anche chi lo attua oppure prevede eccezioni che lo rendono inefficace
Un regime autoritario lancia una guerra feroce contro una nazione sovrana. La comunità internazionale vara sanzioni economiche contro l’aggressore ma non riesce a fermarlo. Perché? Le sanzioni sono un’arma inefficace? Oppure il fiasco è dovuto al fatto che il castigo è stato applicato in modo parziale, perché sono intervenuti troppi interessi a limitare l’embargo? Questo dibattito non nasce con la guerra russo-ucraina di oggi, ma con l’invasione italiana dell’Abissinia (Etiopia) nel 1935. Lo ricorda uno storico olandese, Nicholas Mulder, docente negli Stati Uniti alla Cornell University. Il suo saggio The Economic Weapon (Yale University Press) ricostruisce la storia delle sanzioni economiche e ne esplora i limiti.
L’idea di fare la guerra con mezzi economici è antica quanto l’umanità. Per lo meno da quando l’assedio è una delle tecniche belliche: tra i suoi scopi c’è lo strangolamento economico del nemico. In epoca moderna un’applicazione fu fatta dall’Inghilterra e da Napoleone con sanzioni economiche incrociate. Cominciarono gli inglesi lanciando il blocco navale dei porti francesi dal 16 maggio 1806. La risposta di Napoleone fu il «blocco continentale» decretato contro l’Inghilterra nel decreto di Berlino del 21 novembre 1806. Gli uni e gli altri riuscirono ad aggirare in parte le sanzioni, che non furono risolutive per decidere l’esito del conflitto.
L’opera di Mulder si concentra su una storia più recente, quella delle sanzioni multilaterali, applicate non da una sola potenza ma da una vasta coalizione. Quando nasce la speranza che la pressione economica possa sostituirsi alla guerra? È figlia dell’idealismo che ispira la Società delle Nazioni, organismo multilaterale che prefigura le odierne Nazioni Unite, voluto dal presidente democratico americano Woodrow Wilson dopo la Prima guerra mondiale per impedire il ripetersi di una simile deflagrazione. Le sanzioni economiche nell’accezione contemporanea hanno compiuto cent’anni. Le potenze vincitrici della Prima guerra mondiale — Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Italia — escogitano questo deterrente contro i trasgressori del nuovo ordine internazionale: un arsenale di misure economiche da applicare congiuntamente. L’uso collettivo delle sanzioni viene inserito all’articolo 16 della carta della Società delle Nazioni. Se uno Stato aggredisce un’altra nazione, i membri della Società devono interrompere ogni relazione commerciale e finanziaria con il colpevole. Prima ancora che le sanzioni entrino in vigore, chi le ha ideate spera che l’esistenza stessa di questa minaccia sia abbastanza dissuasiva da prevenire ogni guerra futura.
Così un secolo fa insieme con il Trattato di Versailles che mette fine alla Prima guerra mondiale nasce una teoria della deterrenza economica. Subito si affaccia una contro-teoria legata alle clausole di Versailles: il timore che un eccesso di sanzioni inflitte ex post alla Germania, alimenti un revanscismo foriero di future catastrofi. Americani e inglesi a Versailles hanno dubbi sulla sostenibilità degli indennizzi imposti alla Germania ma i francesi tengono duro.
La credibilità delle sanzioni riceve un colpo quando in America prevale l’isolazionismo dei repubblicani e Washington decide di non aderire alla Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti negli anni Venti del secolo scorso sono già la prima economia mondiale e si ritirano a casa propria.
Mulder ricorda qualche esempio minore in cui la minaccia delle sanzioni ha un effetto deterrente contro Stati piccoli e deboli come Jugoslavia e Grecia. Il fiasco arriva al momento di applicarle a una delle potenze fondatrici della Società delle Nazioni, l’Italia. La decisione di Benito Mussolini di lanciarsi alla conquista dell’Abissinia fa scattare quelle che lui definisce «le inique sanzioni». Nella propaganda fascista sono «l’assedio societario», con riferimento alla delibera della Società delle Nazioni nell’ottobre 1935. L’impatto economico è pesante, i disagi per la popolazione sono reali, ma senza un effetto dissuasivo sulle operazioni militari.
Perché lo strumento è inadatto, o al contrario perché non viene applicato abbastanza? Le eccezioni nel 1935 sono vistose. L’embargo sulle forniture di petrolio all’Italia non viene adottato perché inglesi e francesi non vogliono mettersi contro l’industria petrolifera americana. In quanto all’idea di chiudere il canale di Suez alle navi italiane, bloccando così la rotta più breve verso l’Abissinia, viene respinta da Londra che non vuole venir meno al principio della libertà di navigazione, protetta da leggi internazionali e sacra per un impero marittimo.
Il caso successivo di sanzioni è considerato da alcuni peggio che un fiasco, un boomerang. Nel luglio 1941 Franklin Roosevelt costruisce una coalizione di nazioni occidentali che applicano un embargo petrolifero contro il Giappone per castigarne le aggressioni in Asia. Sarà proprio quello strangolamento energetico a spingere Tokyo verso l’attacco a Pearl Harbor nel dicembre di quell’anno? Esistono obiezioni fondate. L’accesso limitato alle materie prime era già una motivazione dell’espansionismo giapponese molto prima di quell’embargo. E le sanzioni economiche contro Tokyo arrivano con dieci anni di ritardo visto che la prima aggressione nipponica risale all’invasione della Manciuria nel 1931.
Nel capitolo finale Mulder ricostruisce il ruolo delle «armi economiche positive» nello svolgimento della Seconda guerra mondiale. Se le sanzioni sono state inefficaci per prevenire conflitti, in compenso l’economia si rivela decisiva per vincerli. Tutto comincia con la legge Lend-Lease («presta-affitta») che Roosevelt vara prima ancora di entrare in guerra, per accelerare le forniture di armi made in Usa a Londra: una legge che Joe Biden ha riesumato per l’Ucraina.
La superiorità produttiva dell’industria americana fa la differenza in tutta la Seconda guerra mondiale, fino a consentirle aiuti militari all’Armata Rossa sovietica. Se Mulder non si fermasse al 1945, un capitolo aggiuntivo dovrebbe includere il Piano Marshall per la ricostruzione dell’Europa come il non plus ultra della sanzione economica positiva. Già al vertice di Bretton Woods nel 1944 Roosevelt ha prefigurato un nuovo ordine internazionale in cui la pace andava favorita con la diffusione della prosperità.
Tre quarti di secolo dal dopoguerra hanno arricchito la casistica delle sanzioni. Sono state usate anche dagli altri contro di noi. L’esempio più importante è l’embargo petrolifero decretato dal cartello dell’Opec nel 1973, quando i Paesi arabi vogliono castigare le nazioni occidentali che hanno appoggiato Israele nella guerra dello Yom Kippur: segna l’inizio della nostra stagflazione. Più di recente la Cina fa un uso chirurgico e spietato delle sue sanzioni economiche, per colpire Paesi che hanno preso posizioni politiche sgradite a Pechino: ne hanno già fatto le spese Australia, Filippine, Norvegia, Lituania.
Il dubbio che le sanzioni facciano più male a chi le applica fu discusso tra europei e americani in un episodio che Mulder ha ricordato di recente sul «Wall Street Journal». Il presidente repubblicano Ronald Reagan negli anni Ottanta tentò di dissuadere gli europei dal costruire oleodotti e gasdotti con la Russia e applicò sanzioni contro le aziende coinvolte. La Germania, ma anche il Regno Unito della conservatrice Margaret Thatcher, non ne vollero sapere e convinsero Reagan a eliminare quelle misure.
Da allora l’Europa ha continuato a costruire legami di dipendenza con Mosca, con il risultato che le sanzioni di oggi sono ambivalenti. Una stima dello stesso Mulder indica che l’insieme dei beni russi sequestrati in Occidente a fine aprile valeva 640 miliardi di dollari; a fronte dei quali secondo lui ci sono 566 miliardi di dollari di investimenti occidentali in Russia che rischiano il sequestro, la nazionalizzazione, o la perdita di valore.
Lo storico britannico Paul Kennedy ha una lezione generale: «Le sanzioni non funzionano quando nel cordone dell’embargo ci sono varchi che permettono di aggirarle. Né funzionano se un’altra superpotenza si fa avanti per vanificarle, offrendo il proprio sostegno al paese in castigo, come fecero già in passato Cina e Russia con Iran e Corea del Nord».