Corriere della Sera - La Lettura
La salute è per tutti (anche per i cervi)
L’umanità, ormai lo abbiamo imparato, non è al centro dell’universo: partecipa con le creature che abitano la Terra e i mari — compresi insetti, piante, crostacei — al benessere collettivo. E ciascuno — inclusi i batteri — è importante per la vita degli altri. E allora occuparsi del nostro benessere non basta più: per stare realmente bene occorre stare bene insieme. Guardate che cosa succede nelle foreste o nei parchi, quando anche animali selvatici si infettano con il Sars-CoV-2
C’è un’espressione — one health — che è diventata uno slogan; ormai la usano tutti, qualche volta a proposito, qualche volta no. Ma cosa vuol dire davvero? Che la salute è una sola, e non è solo quella dell’uomo. L’uomo non è al centro dell’universo, partecipa insieme a tutte le creature che abitano la terra e i mari — inclusi gli insetti, le piante, i crostacei — al benessere collettivo, ma ciascuno, inclusi i batteri, è importante per la vita di ciascun altro. E allora occuparsi della nostra salute non basta più, ci si deve occupare della salute e del benessere di tutti gli altri se davvero vogliamo star bene noi, oggi e per gli anni a venire.
Partiamo, tanto per fare un esempio, dalle malattie infettive: come colpiscono noi, colpiscono gli animali e persino gli animali selvatici. Il virus Sars-CoV-2, che ci ha toccati tutti da vicino, non ha avuto alcuna attenzione per la nostra specie, per lui e per tanti altri virus del genere, uno vale l’altro, il cammello vale il pangolino e lo zibetto si infetta proprio come il professore di filosofia. È un dramma, l’abbiamo visto, ma possibile che anche le cose peggiori non possano portare qualcosa di buono? Forse sì, il coronavirus potrebbe essere l’occasione perché si riesca ad arrivare a una medicina diversa, fatta di medici, infermieri, di chi lavora in laboratorio, certamente, ma anche di matematici, ingegneri, veterinari, agronomi e più in generale esperti della salute degli animali, degli insetti, delle pianQualcosa del genere si sta già facendo ma si dovrà certamente fare di più.
Sapevate che i ricercatori di tutte le parti del mondo da anni lavorano e continuano a lavorare in collaborazione con i cacciatori? Perché mai? Perché gli animali che passano la loro giornata nei boschi, i cervi per esempio, si ammalano di malattie infettive proprio come noi, di encefalopatia spongiforme, tanto per dirne una, o di tubercolosi bovina. E come arrivare a studiare queste malattie se non con i cacciatori? Ed è importante che qualcuno se ne faccia carico se no succederà centinaia di volte quello che è successo in questi anni con Sars-CoV-2: gli agenti patogeni passano dall’animale all’uomo e quando ce ne accorgiamo è già troppo tardi. È per questo che i tamponi molecolari per rilevare l’Rna di Sarsnon possono essere solo per noi, dovranno essere per gli animali, e per gli animali selvatici in particolar modo. È quello che si fa con i cervi, quelli che il più delle volte sono già morti e si trovano ormai sui furgoni dei cacciatori o nelle macellerie; è logico che si prenderanno tutte le precauzioni per non ammalarsi, ma il tampone lo si fa anche ai cervi. E gli anticorpi non si cercano solo nel sangue dell’uomo ma anche in quello dei cervi. E così si è visto che certe specie, particolarmente i cervi dalla coda bianca o cervi della Virginia (Odocoileus virginianus), che si trovano in Nord America e in Canada, si infettano proprio come noi, e se ne infettano a centinaia.
Resta da capire come ha fatto il virus ad arrivare ai cervi, come fa a diffondersi tra loro, e che rischio c’è per gli altri anite. mali selvatici che vivono nelle stesse aree. E poi, rischia anche l’uomo? Vediamo. Solo negli Stati Uniti vivono 30 milioni di cervi, sono uno ogni dieci persone; in Canada ce n’è un po’ meno ma comunque si tratta di milioni. E non basta: le varianti di Sars-CoV-2 che si trovano nei cervi di una determinata zona sono quasi sempre le stesse che colpiscono l’uomo che vive in quelle aree. Al punto che molti esperti pensano che la variante Omicron, che è così contagiosa, lo sia diventata attraverso processi evolutivi avvenuti prima negli animali che nell’uomo.
E i cervi infettati con Sars-CoV-2 come stanno? Bene, di solito, ma questo può essere persino un problema perché così possono diffondere la malattia ad altre specie eventualmente più vulnerabili. Quando una malattia infettiva, capace teCoV-2
Certe specie, soprattutto quella «dalla coda bianca» o «della Virginia», in Nord America e in Canada, si contagiano proprio come noi. Non sappiamo come, ma si contagiano, a centinaia. Una volta che si è adattato all’ospite, il Sars-CoV-2 può mutare ed evolvere, ricombinarsi con altri coronavirus, colpire pecore e capre che frequentano gli stessi pascoli. E noi. Per esempio la sequenza virale in una persona dell’Ontario è risultata identica al genoma virale di un mammifero della stessa regione
oricamente di colpire l’uomo, incomincia a diffondersi tra gli animali selvatici — sostiene Marietjie Venter, una virologa di una delle università del Sudafrica in una recente intervista pubblicata su «Nature» — ci si deve preoccupare perché diventa molto difficile da controllare. Per questo, appena Sars-CoV-2 è arrivato all’uomo, gli studiosi delle malattie del mondo animale si sono subito preoccupati del fatto che anche gli animali potessero ammalarsi, o che lo fossero già prima.
Un modo per scoprirlo era di andare a cercare il recettore Ace2, lo stesso che Sars-CoV-2 utilizza per infettare le cellule umane. Stabilito quali fra gli animali avessero abbondanza del recettore, e cioè gatti, topi, zibetti e procioni e più recentemente proprio i cervi dalla coda bianca, i ricercatori hanno provato a infettare questi animali con Sars-CoV-2 per vedere quanto e come si ammalavano e se riuscivano a diffondere la malattia. Questi animali di solito si infettano, anche se non in modo grave, ma diffondono la malattia ad altri animali.
Anche i cervi degli zoo si infettano con Sars-CoV-2 e diffondono l’infezione agli animali dei recinti vicini. Non solo, ma nel giro di due settimane questi animali producono anticorpi contro il virus proprio come fa l’uomo, anche se nessuno di loro sta particolarmente male. A questo punto i ricercatori si sono chiesti quanto fosse diffusa questa malattia tra i cervi; dato che stavano bene, l’unico modo era cercare gli anticorpi. Hanno raccolto il sangue di quasi 400 cervi tra gennaio e marzo del 2021 (e questo fa parte di una sorveglianza regolare per le malattie infettive di questi animali che si fa in diverse zone degli Stati Uniti: Illinois, Michigan, New York e Pennsylvania) e hanno trovato che il 40% dei campioni esaminati conteneva anticorpi contro Sars-CoV-2. Gli anticorpi non erano così specifici contro Sars-CoV-2 e non si poteva escludere che fossero anticorpi contro altri coronavirus capaci anche loro di infettare i cervi. E così, nel primo anno della pandemia, questi ricercatori hanno cominciato a raccogliere tamponi nasali per fare proprio quello che si fa nell’uomo: la Pcr
(Polymerase chain reaction) per il virus Sars-CoV-2. Fino a dicembre del 2020, i campioni sono risultati tutti negativi, ma l’anno successivo si sono trovati 130 cervi positivi al Sars-CoV-2 su 360 animali studiati. Questi erano tamponi molecolari, quindi il dato è sicuro. Questo lavoro l’hanno fatto la prima volta all’università dell’Ohio, poi ci si sono cimentati i virologi della Pennsylvania e hanno ottenuto risultati molto simili: il 30 % dei campioni da tamponi erano positivi per Sars-CoV-2 e questo corrispondeva al picco di diffusione dell’infezione umana. Sia in Ohio che in Pennsylvania, le varianti che si trovavano nei cervi erano geneticamente identiche a quelle dell’uomo; sembrerebbe che il virus sia passato dall’uomo al cervo almeno in sei occasioni e poi è arrivata la conferma: i cervi il virus se lo passano tra loro, di questo siamo sicuri da studi genetici. Che lo passino all’uomo è verosimile ma servono altri studi per confermarlo in modo definitivo. Manco a dirlo gli stessi studi sono stati fatti in Canada, un’altra area dove i cervi della coda bianca sono molto diffusi. I positivi erano meno che nel nord degli Stati Uniti ma ce n’erano e recentemente si è trovata anche nei cervi la variante Omicron.
E in Europa? Per ora nessuno ha trovato cervi positivi a Sars-CoV-2 in Europa, ma non pensiate che sia perché non lo si cerca quel virus, c’è un impegno enorme, soprattutto in Inghilterra da parte degli studiosi proprio in questa direzione. Negli zoo di Nottingham, in Inghilterra, di Berlino e in altre parti della Germania e in Austria nessuno tra i cervi testati (il capriolo, il cervo nobile o cervo rosso e il daino) aveva Sars-CoV-2. È strano perché se uno va a cercare il recettore Ace2, lo trova nei cervi d’Europa proprio come nei cervi degli Stati Uniti. Come si spiega? Potrebbe essere che il numero elevato dei cervi del nord degli Stati Uniti, se comparato a quello dell’Europa, abbia favorito il fenomeno della diffusione del virus fra i cervi, ma forse è perché là — in Nord America e in Canada — ci sono molte più occasioni di incontro fra i cervi e l’uomo (in America i cervi vanno in giro tranquillamente ai limiti dei giardini delle case e così l’interazione con l’uomo è molto facile).
Una cosa che rimane ancora abbastanza misteriosa è come fanno questi cervi a infettarsi. Si sa che l’uomo passa agli animali certi batteri e certi virus, l’Escherichia coli per esempio, il virus del morbillo o la Giardia, che è un protozoo. Ma sono eventi abbastanza rari. La spiegazione più probabile è un contatto diretto, per esempio quando gli uomini si avvicinano, accarezzano gli animali o gli danno qualcosa da mangiare; anche perché i cervi che vivono attorno alle case o nei campus delle università non hanno più paura dell’uomo. I cervi potrebbero anche infettarsi attraverso verdura o frutta contaminata abbandonata nei prati o nei giardini, si avvicinano, la annusano, e poi se ne nutrono; o addirittura si infettano con mascherine abbandonate che loro tendono ad annusare. Però in questi casi i cervi dovrebbero arrivare lì al momento giusto, quando il materiale è appena stato contaminato da secrezioni dell’uomo, solo così può passare ai cervi.
Ci sono anche animali che finiscono sotto le macchine (capita anche da noi, nelle nostre montagne) ma negli Stati Uniti è un evento molto più frequente; ci sono cliniche specializzate nel curare gli animali che sopravvivono per poi riportarli nel loro ambiente, ma intanto questi animali frequentano l’uomo molto da vicino. Anche se, a pensarci bene, nessuna di queste circostanze riesce a spiegare un numero così alto di positività trovata nei cervi del nord degli Stati Uniti.
In realtà, nessuna di queste spiegazioni è veramente convincente, anche perché non sono solo i cervi che vivono vicino ai centri abitati che finiscono per avere il tampone molecolare positivo dell’Rna di Sars-CoV-2, ci sono cervi che vivono in posti isolati, lontani dall’uomo, ma anche loro possono infettarsi. Non è neanche escluso che i cervi vengano infettati da altri animali come i gatti o i visoni selvatici; anche su questo però ci sono più dubbi che certezze.
È chiaro però che una volta che il cervo viene infettato, trasmettere l’infezione è molto facile; sono animali con una vita sociale estremamente attiva. Per certi mesi dell’anno le madri vivono con diverse generazioni di figli, stanno tutti insieme in uno spazio piccolo, e poi, quando nevica tanto, soprattutto negli Stati del nord, branchi di cervi si dirigono a volte nei deer yard, aree dove una fitta copertura di alberi impedisce alla neve di accumularsi. In queste circostanze, il rischio che i cervi siano un vero reservoir per il virus è molto forte: gli animali sono a contatto molto stretto, ci sono proprio contatti naso a naso tra i cervi.
Una volta che si è adattato al cervo, poi il virus può mutare ed evolvere, ricombinarsi con altri coronavirus e infettare pecore e capre che frequentano gli stessi pascoli. Ci sono diversi studi che suggeriscono che questo sia possibile. In Ontario (Canada), nel novembre e dicembre 2021 è stato sequenziato il genoma di 5 virus Sars-CoV-2 da cervi; questi virus avevano molte mutazioni rispetto al virus originario di Wuhan, e qualcuna di queste mutazioni ha contribuito a una modificazione della proteina spike. Si potrebbe pensare che i virus che infettano noi hanno vissuto molto tempo nei cervi prima di arrivare a noi e si sono modificati in modo da diventare sempre più contagiosi.
La sequenza virale in una persona che viveva nel sud-ovest dell’Ontario identica al genoma virale trovato in un cervo che viveva nella stessa zona ha fatto pensare alla possibilità concreta che in realtà siano stati i cervi in quel caso a trasmettere la malattia all’uomo. Se questo dovesse succedere spesso, e se gli animali fossero capaci di reinfettarsi proprio come succede a noi, c’è il rischio che il virus continui a circolare indipendentemente da quello che possiamo fare noi per prevenire e curare la malattia dell’uomo. Adesso ne sappiamo troppo poco e non sappiamo quanto possano essere pericolose le forme che evolvono nei cervi per poi passare all’uomo e nemmeno se varianti di tipo Delta o Omicron si comportano in modo diverso nell’uomo e nei cervi. E poi bisogna vedere qual è il rapporto tra i cervi e gli altri animali che sono suscettibili al Sars-CoV-2, per esempio volpi e visoni, in termini di capacità di infettarsi a vicenda, di far evolvere il virus, di creare nuove mutazioni. Insomma, siamo solo agli inizi di una storia che ci fa pensare alla complessità del problema della pandemia di Sars-CoV-2, che troppo spesso cerchiamo di ridurre alle categorie che conosciamo, mentre la natura e l’ambiente possono riservarci molte altre sorprese.