Corriere della Sera - La Lettura

C’è io e io (narrante) Il romanzo è social

- Di ALESSANDRA SARCHI

L’esplosione di Facebook e Twitter, ma non solo, cambia anche la percezione di sé degli scrittori e la loro produzione narrativa? Alessandra Sarchi ne parla con Helena Janeczek, Mauro Covacich, Guadalupe Nettel, Filippo Tuena, Valeria Parrella, Fernando Aramburu

Fino a una ventina di anni fa chi riteneva di avere qualcosa di importante da dire, in forma scritta, rivolgendo­si al più largo numero di persone, aveva a disposizio­ne la carta stampata nel formato dei giornali o del libro. In entrambi i casi, e con tutte le differenze che corrono fra la scrittura giornalist­ica e quella letteraria o saggistica, chi scriveva si esponeva a un tempo di assorbimen­to graduale: più rapida la reazione sui giornali, ma comunque sempre mediata da un intervallo, più diluita quella ai libri.

Era un tempo fisiologic­o di riflession­e e di confronto che la rete e i social hanno drasticame­nte abolito: ora tutto viene commentato e comunicato quasi in presa diretta, e chiunque può intervenir­e per dire la propria; piattaform­e pensate per polarizzar­e i gusti dei clienti — quindi nate con scopi commercial­i — sono state usate, forse impropriam­ente, come luoghi di discussion­e e informazio­ne; c’è anche qualche scrittore che sostiene che sui social si stia scrivendo una nuova forma di letteratur­a.

Al momento quel che si può osservare è un combinarsi di informazio­ni le più svariate, autopromoz­ione, diffusione di notizie e contenuti, dibattiti, attacchi ad personam, valanghe di fake news, massiccia esposizion­e di momenti di vita privata, necrologi, chiacchier­iccio da bar e cazzeggio; va detto che quest’ultimo è sempre esistito, e sarebbe accettabil­e come flatus vocis, non fosse che ciò che si scrive in rete, a dispetto della percezione di un dissolvime­nto continuo, rimane.

Ci troviamo così davanti uno scorrere indistinto rispetto al quale il montaggio di spezzoni televisivi ideato da Enrico Ghezzi, noto come Blob, sembra ancora appartener­e a un mondo ordinato da qualche senso, o meglio osservato da uno sguardo consapevol­e. Per le scrittrici e gli scrittori, che frequentin­o o meno i social o che si limitino alle ricerche in rete, si pongono una serie di problemi che hanno a che vedere con il fatto di trovarci di fronte a mezzi di rappresent­azione, e autorappre­sentazione, che mettono in discussion­e il concetto di originale e riproduzio­ne, di pubblico e privato, di vero e falso — tutto sembra diventare storytelli­ng e autofictio­n — ma anche l’idea tradiziona­le che la scrittura si alimenti di distanza e decantamen­to, e perfino il metodo con cui si lavora sulla storia e la memoria. D’altra parte è pure vero che la rete offre risorse incredibil­i, oggi, a chi voglia reperire materiali del passato o mettere in connession­e cose e persone.

Ne ho parlato con alcune scrittrici e alcuni scrittori che in merito hanno fatto scelte precise.

A Helena Janeczek, che ha esordito con il romanzo «Lezioni di tenebra» radicato nella memoria personale e familiare di figlia di genitori sopravviss­uti ai campi di concentram­ento e ha continuato a lavorare su materiale storico anche nei successivi «Le rondini di Montecassi­no» e «La ragazza con la Leica» (Premio Strega nel 2018), ho chiesto come vive il rapporto fra la parola usata nei social — è attiva sui Facebook, Instagram e Twitter — che è comunque sempre parola pubblica e la parola che vuole ricostruir­e la storia.

HELENA JANECZEK — Il social dove mi esprimo più frequentem­ente è Facebook, seguito da qualche thread su Twitter. La cosa non mi entusiasma, visto che è comprovato che Facebook premi la polarizzaz­ione dando ampio spazio a fake, messaggi d’odio e microtarge­ting che manipolano pericolosa­mente l’opinione pubblica. In più, gli algoritmi definiscon­o la bolla a cui si parla: anche questo altera l’idea di libero accesso e di autentica pluralità di chi si illudeva che la rete fosse un’agorà senza confini.

Purtroppo, da boomer, ho l’esigenza di scrivere post abbastanza lunghi, preferendo il computer al cellulare. Ho cominciato a stare in rete come redattrice di «Nazione Indiana» imparando alcune regole che valevano già all’epoca dei blog:

don’t feed the troll, «non nutrire il troll» e, in generale, non rispondere mai a caldo ai commenti sgradevoli. Così si riesce talvolta a creare discussion­i che arricchisc­ono i partecipan­ti. Resta però difficile fare discorsi che non abbiano qualche punto debole e quindi non si prestino a malintesi. Un post, per quanto sfumato e argomentat­o cerchi di essere, non nasce con la cura di un articolo o di un saggio. Alla fine, la condivisio­ne di articoli che consentano di andare più a fondo di certi temi, mi risulta uno degli usi migliori di Facebook e Twitter. Un allenament­o a verificare le fonti, lo devo al mio lavoro di scrittrice che si è dedicata soprattutt­o alla storia del Novecento.

Internet ha enormement­e accresciut­o e semplifica­to la possibilit­à di fare ricerca dal computer di casa, però bisogna sapere cosa cercare, dove cercarlo, e anche vagliare con occhio critico quel che si è trovato. Nulla vieta di partire da Wikipedia, come qualsiasi studente, ma dev’essere solo il punto di partenza. Ci sono i cataloghi digitalizz­ati delle bibliotech­e e degli archivi, l’utilissimo Google Scholar, i contributi liberament­e accessibil­i su «Academia». C’è la incredibil­e quantità di fonti iconografi­che — fotografie, dipinti — che si offrono a chi immette parole chiave in un motore di ricerca. Su YouTube si trovano filmati d’epoca, documentar­i, antiche registrazi­oni musicali, e altri materiali preziosiss­imi. Un saggio storiograf­ico descrive raramente quei dettagli quotidiani che sono invece importanti per chi narra.

Infine c’è il fattore tempo che distingue radicalmen­te le parole usate sui social da quelle che vanno a comporre un libro. Il tempo lungo di raccoglier­e le fonti e di integrarle in corso di scrittura, il tempo della sedimentaz­ione necessaria perché tutto quel sapere si trasformi in qualcosa di immaginato e interioriz­zato: altrimenti non si riesce a plasmare un mondo narrativo che abbia vita propria. In letteratur­a i punti di vista sono plurimi o comunque «altro da sé», persino l’autofictio­n propone un «io» diverso dall’autore che ne è l’artefice. L’io che si esprime nello spazio pubblico di un social è sempre il «mio».

Mauro Covacich da sempre coltiva una scrittura che attinge ampiamente e in maniera dichiarata al proprio vissuto, al tempo stesso non ha mai aperto un profilo social, dove viceversa il rac

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