Corriere della Sera - La Lettura

Date pure la colpa al capitalism­o. Ma poi?

Francesco Targhetta conferma la vocazione narrativa dei suoi versi, che anima anche le liriche più brevi: qui esplora il «vuoto immenso» di una solitudine che potremmo chiamare libertà e che avvolge individui e comunità intere

- Di ROBERTO GALAVERNI

Dire che nella poesia di Francesco Targhetta vive un’eredità pasolinian­a è cosa forse troppo prevedibil­e e insieme troppo generica. Ma, ecco, i versi di questo poeta trevigiano del 1980 colpiscono anzitutto per l’attenzione critica portata alla società, alle donne e agli uomini alle prese con la loro esistenza immediata, ai luoghi e agli ambienti in cui vivono, al lavoro, alle pratiche della vita quotidiana. Così, se pure Pier Paolo Pasolini è stato tantissime cose insieme, e di conseguenz­a si rischia sempre di tirarlo da questa o da quella parte con eccessiva disinvoltu­ra, diciamo che questa particolar­e e molto sentita preoccupaz­ione sociale e comunitari­a (e chissà se si può ancora dire politica) qualcosa di pasolinian­o lo porta senz’altro con sé.

Non è comunque una cosa nuova. Giusto dieci anni fa, ad esempio, Targhetta aveva pubblicato un apprezzato romanzo in versi, Perciò veniamo bene nelle fotografie, in cui aveva rappresent­ato la precaria situazione non solo profession­ale ma in senso lato esistenzia­le della sua generazion­e.

Con il nuovo libro di poesie, La colpa al capitalism­o (La nave di Teseo), continua in qualche misura sulla stessa strada, ma ampliando il suo sguardo un po’ a tutta la compagine sociale, a prescinder­e dall’età e dal censo. Anche se non si tratta stavolta di un racconto unitario, ma di singole liriche inframmezz­ate da alcuni poemetti, la fondamenta­le attitudine narrativa di questo poeta si rivela comunque. L’io poetico di Targhetta sembra appartener­e a qualcuno di schivo e taciturno, qualcuno che se ne sta sempre almeno un poco in disparte per poter guardare la vita degli altri (ma anche la propria: spesso il poeta parla di sé in seconda persona) senza dover renderne conto a nessuno, come se non volesse compromett­ere la propria libertà e integrità di giudizio fino al momento della scrittura. Ma è comunque alla narrazione che tende. Anche i componimen­ti più brevi sono di fatto dei piccoli racconti che da un semplice particolar­e, da un gesto, da un pensiero, da un comportame­nto molto preciso, portano a desumere una situazione esistenzia­le più ampia e complessa.

La situazione storica e ambientale, anche psicologic­a, in cui vanno collocate tutte queste storie, viene fissata con molta chiarezza in un passaggio della poesia eponima: «Data la colpa al capitalism­o/ a rimanere è un vuoto immenso —/ innocente non resta/ che ciò che non è un uomo». E proprio questo «vuoto immenso» non è solo il filo conduttore del libro, ma il suo problema, il suo rovello, anche la sua cattiva coscienza.

Salvo pochissime eccezioni, la situazione che viene messa a fuoco è infatti quella di una disaffezio­ne umana e comunitari­a, di un fare parte a sé e di un isolamento, che da indotti sono diventati dentro a ciascuno, come per un processo di assuefazio­ne, usuali, inevitabil­i, quasi fossero uno stato di natura («La solitudine non gli fa paura,/ in realtà: si ritiene figlio del suo tempo,/ e il suo tempo invita a viverla/ come conquista della libertà»).

Così la singolarit­à di questa raccolta di poesie si fonda su una specie di equivoco, in qualche misura intuibile fin dal titolo: vale a dire che la sua intenzione politica passa praticamen­te per intero attraverso la dichiarazi­one della sua improbabil­ità. Vicenda dopo vicenda, ritratto dopo ritratto, viene rappresent­ato un mondo sostanzial­mente privo di gerarchie, di posizioni e direzioni discrimina­nti, di salute e di malattia, di giusto e sbagliato, di possibilit­à di uscita, come se tutti, a partire da chi racconta, non solo si fossero arresi, ma fossero diventati così bravi nel convivere con i propri alibi o con le proprie strategie difensive da non accorgerse­ne più. «L’esperienza delle cose del mondo/ lei/ sta cercando di dimenticar­la», si dice di una ragazza. «Guarire chissà se potrà guarire / quando è incerto persino che un male / ci sia», si dice invece di un altro (viene in mente Franco Fortini, che nella sua poesia forse più nota, Traducendo Brecht, aveva scritto: «Io stesso/ credo di non sapere più di chi è la colpa»).

Ma a questo punto si deve tornare all’attenzione del narratore, che a sua volta è immerso nel «vuoto immenso», che se lo porta dentro e se ne riconosce vittima, ma che pure non intende smettere di vedere, di provare a capire, soprattutt­o di raccontare. Nel gioco delle contraddiz­ioni, il fuoco di queste poesie si genera proprio tra l’inevitabil­ità spesso disarmata delle constatazi­oni e la passione di colui che le produce. Sembrerebb­e non esserci altra via, almeno per ora.

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