Corriere della Sera - La Lettura
Date pure la colpa al capitalismo. Ma poi?
Francesco Targhetta conferma la vocazione narrativa dei suoi versi, che anima anche le liriche più brevi: qui esplora il «vuoto immenso» di una solitudine che potremmo chiamare libertà e che avvolge individui e comunità intere
Dire che nella poesia di Francesco Targhetta vive un’eredità pasoliniana è cosa forse troppo prevedibile e insieme troppo generica. Ma, ecco, i versi di questo poeta trevigiano del 1980 colpiscono anzitutto per l’attenzione critica portata alla società, alle donne e agli uomini alle prese con la loro esistenza immediata, ai luoghi e agli ambienti in cui vivono, al lavoro, alle pratiche della vita quotidiana. Così, se pure Pier Paolo Pasolini è stato tantissime cose insieme, e di conseguenza si rischia sempre di tirarlo da questa o da quella parte con eccessiva disinvoltura, diciamo che questa particolare e molto sentita preoccupazione sociale e comunitaria (e chissà se si può ancora dire politica) qualcosa di pasoliniano lo porta senz’altro con sé.
Non è comunque una cosa nuova. Giusto dieci anni fa, ad esempio, Targhetta aveva pubblicato un apprezzato romanzo in versi, Perciò veniamo bene nelle fotografie, in cui aveva rappresentato la precaria situazione non solo professionale ma in senso lato esistenziale della sua generazione.
Con il nuovo libro di poesie, La colpa al capitalismo (La nave di Teseo), continua in qualche misura sulla stessa strada, ma ampliando il suo sguardo un po’ a tutta la compagine sociale, a prescindere dall’età e dal censo. Anche se non si tratta stavolta di un racconto unitario, ma di singole liriche inframmezzate da alcuni poemetti, la fondamentale attitudine narrativa di questo poeta si rivela comunque. L’io poetico di Targhetta sembra appartenere a qualcuno di schivo e taciturno, qualcuno che se ne sta sempre almeno un poco in disparte per poter guardare la vita degli altri (ma anche la propria: spesso il poeta parla di sé in seconda persona) senza dover renderne conto a nessuno, come se non volesse compromettere la propria libertà e integrità di giudizio fino al momento della scrittura. Ma è comunque alla narrazione che tende. Anche i componimenti più brevi sono di fatto dei piccoli racconti che da un semplice particolare, da un gesto, da un pensiero, da un comportamento molto preciso, portano a desumere una situazione esistenziale più ampia e complessa.
La situazione storica e ambientale, anche psicologica, in cui vanno collocate tutte queste storie, viene fissata con molta chiarezza in un passaggio della poesia eponima: «Data la colpa al capitalismo/ a rimanere è un vuoto immenso —/ innocente non resta/ che ciò che non è un uomo». E proprio questo «vuoto immenso» non è solo il filo conduttore del libro, ma il suo problema, il suo rovello, anche la sua cattiva coscienza.
Salvo pochissime eccezioni, la situazione che viene messa a fuoco è infatti quella di una disaffezione umana e comunitaria, di un fare parte a sé e di un isolamento, che da indotti sono diventati dentro a ciascuno, come per un processo di assuefazione, usuali, inevitabili, quasi fossero uno stato di natura («La solitudine non gli fa paura,/ in realtà: si ritiene figlio del suo tempo,/ e il suo tempo invita a viverla/ come conquista della libertà»).
Così la singolarità di questa raccolta di poesie si fonda su una specie di equivoco, in qualche misura intuibile fin dal titolo: vale a dire che la sua intenzione politica passa praticamente per intero attraverso la dichiarazione della sua improbabilità. Vicenda dopo vicenda, ritratto dopo ritratto, viene rappresentato un mondo sostanzialmente privo di gerarchie, di posizioni e direzioni discriminanti, di salute e di malattia, di giusto e sbagliato, di possibilità di uscita, come se tutti, a partire da chi racconta, non solo si fossero arresi, ma fossero diventati così bravi nel convivere con i propri alibi o con le proprie strategie difensive da non accorgersene più. «L’esperienza delle cose del mondo/ lei/ sta cercando di dimenticarla», si dice di una ragazza. «Guarire chissà se potrà guarire / quando è incerto persino che un male / ci sia», si dice invece di un altro (viene in mente Franco Fortini, che nella sua poesia forse più nota, Traducendo Brecht, aveva scritto: «Io stesso/ credo di non sapere più di chi è la colpa»).
Ma a questo punto si deve tornare all’attenzione del narratore, che a sua volta è immerso nel «vuoto immenso», che se lo porta dentro e se ne riconosce vittima, ma che pure non intende smettere di vedere, di provare a capire, soprattutto di raccontare. Nel gioco delle contraddizioni, il fuoco di queste poesie si genera proprio tra l’inevitabilità spesso disarmata delle constatazioni e la passione di colui che le produce. Sembrerebbe non esserci altra via, almeno per ora.