Corriere della Sera - La Lettura
L’arte a bassa intensità che vedremo a Kassel
Con Venezia è uno degli appuntamenti internazionali più importanti: in Germania sta per cominciare Documenta 15 Qui un critico spiega l’impostazione della manifestazione (più attivismo che creatività) e perché porrà tanti quesiti...
Negli ultimi vent’anni, i due più importanti eventi artistici internazionali — Documenta di Kassel e Biennale di Venezia — si sono quasi continuati, condividendo intenzioni, istanze, esigenze. Prepariamoci, ora, a un allontanamento.
Simile a una capsula immune dalla tempesta dell’attualità, la Biennale curata da Cecilia Alemani ha offerto una cartografia della linea introspettiva dell’arte del nostro tempo, d’impronta tardo-surrealista, abitata da artisti che intendono il proprio lavoro come una lente d’ingrandimento posata sui territori disomogenei dell’inconscio, come uno strumento per fare affiorare frammenti eterogenei dal sottosuolo dell’io.
Documenta 15 (dal prossimo 18 giugno al 25 settembre), invece, ripropone l’approccio «artivistico» che ha caratterizzato le ultime edizioni della grande rassegna tedesca (da quella del 2002 curata da Okwui Enwezor a quella del 2017 curata da Adam Szymczyk). Sarà una mostra segnata da un’evidente contraddizione. Fedele alla propria «missione» storica, Documenta 15 mira a intercettare alcune tra le più brucianti urgenze di una civiltà non-lineare come la nostra, nella quale, ha ricordato Paolo Giordano, continuiamo a pensare in maniera lineare. Anche se il percorso critico annunciato sembra quasi indifferente ai traumi del presente: l’avvento della pandemia, la guerra in Ucraina, il ruolo del digitale.
La ragione di questo approccio, forse, è da ricondurre al fatto che i curatori, nominati nel 2019, abbiano elaborato il concept in una fase pre-emergenziale, senza però riarticolarlo alla luce di una situazione politica e sociale radicalmente mutata. Si tratta di Ruangrupa, collettivo costituitosi nel 2000 a Giakarta: un’enclave indipendente di artisti, pensatori e attivisti aperta a sociologi, a politici, a tecnologi e a massmediologi; una rete di pratiche non contigue (politica, tecnologia, scienze sociali e media); un’organizzazione senza scopo di lucro impegnata in happening collaborativi di apprendimento pubblico (mostre, festival, laboratori, pubblicazioni), istituiti per offrire punti di vista eccentrici su alcune tra le più drammatiche questioni civili indonesiane, in modo da promuovere la diffusione di principi democratici come uguaglianza e solidarietà.
La medesima filosofia è al centro di Documenta 15, che ruota intorno ai concetti di sostenibilità e di condivisione sui quali, da secoli, si basa l’agricoltura indonesiana: dopo avere lavorato nelle campagne, le comunità locali accumulano un ampio patrimonio che, poi, dividono in parti eque. È una consuetudine sintetizzata dal termine indonesiano lumbung (traducibile con l’espressione «deposito di riso»). Memore di questa antica tradizione, guidato dall’idea che fare arte significhi innanzitutto mettere in comune saperi e conoscenze da arricchire continuamente, Ruangrupa ha ordinato un’ampia e articolata rassegna espositiva. Che, dal 2019, è stata accompagnata da non poche polemiche e disfunzioni organizzative. Dapprima, la definizione dell’elenco degli invitati: pochi artisti singoli (ad esempio, Jimmie
Durham, scomparso nel 2021), tanti (troppi?) collettivi, i cui nomi sono spesso lontani dall’art system (tra gli altri, ikkibawiKrrr, ook_reinaart vanhoe, Taring Padi (WIB) Wakaliwood, Arts Collaboratory, Black Quantum Futurism, Chimurenga, Jumana Emil Abboud, Subversive Film, Cinema Caravan und Takashi Kuribayashi, Atis Rezistans / Ghetto Biennale, *foundationClass* collective, Another Roadmap Africa Cluster, Archives des luttes des femmes en Algérie, Asia Art Archive, Keleketla! Library, Komîna Fîlm a Rojava, Siwa plateforme – L’Economat at Redeyef, The Black Archives, Baan Noorg Collaborative Arts and Culture, Fehras Publishing Practices, Nhà Sàn Collective, The Nest Collective, La Intermundial Holobiente, BOLOHO, CHANG En-manm, Sa Sa Art Projects, LE 18, MADEYOULOOK, Party Office b2b Fadescha e Serigrafistas queer).
Per governare queste presenze, Ruangrupa ha adottato un metodo di lavoro poco efficace. A ogni gruppo è stato assegnato un budget da autogestire: ne sono derivati ritardi molto ampi nella realizzazione dei vari interventi. Inoltre, si è deciso di esporre non solo le installazioni ma anche le fasi preparatorie di quelle stesse installazioni, nate dalla partecipazione di persone non anonime, ma esperte (reclutate con open call). Infine, non sono mancate le accuse di strumentalizzazione: tanti artisti avrebbero sfruttato cinicamente gli abitanti delle comunità coinvolte.
Occorrerà attendere qualche settimana per scoprire le opere site specific (finora, nessuna indiscrezione). Ma siamo certi che Documenta 15 sarà una straordinaria occasione per fare il bilancio su alcune esperienze poetiche controverse e ambigue, affermatesi con forza negli ultimi anni. Sono esperienze fondate sull’incontro tra arte e attivismo, sulle quali sembra allungarsi l’ombra di Joseph Beuys, sacerdote laico, teorico della «scultura sociale», promotore di azioni d’impronta pedagogica: per avere un’utilità e un significato, un determinato atto poetico deve essere portato sul terreno della realtà. Decisivi anche i riferimenti all’estetica relazionale: per decifrare le sempre imprevedibili reazioni prodotte dall’opera sullo spettatore, artisti come, tra gli altri, Félix Gonzàlez-Torres, Philippe Parreno e Liam Gillick promuovono una diversa forma di intersoggettività.
Sulle orme di questi echi, sono nate proposte diverse, che indicano un netto cambio di paradigma. Con un’autentica carica ribellistica, i collettivi scelti da Ruangrupa contestano uno dei capisaldi dell’estetica classica: per essere davvero tale, l’arte deve produrre opere destinate a diventare «cose» finite, da restaurare, da trasportare, da commercializzare. Socrate e i pensatori orientali hanno insegnato che, per fare filosofia, non sia necessario scrivere trattati o libri. Influenzati da questa lezione, i rassemblement ospitati a Documenta ritengono che per fare arte non sia necessario produrre oggetti. Basta attivare progetti condivisi. Conta il processo. Lo stadio che precede l’opera finita: la ricerca, la didattica, le modalità procedurali. È artistico ogni procedimento che abbia finalità estetiche: un fatto, un comportamento.
Esito inevitabile di questo discorso è la creazione, per servirci di un’intuizione del filosofo Yves Michaud, di un’«arte allo stato gassoso». Un’arte a bassa intensità, vaporizzata, fluida, interattiva, volatile, dispersa, senza opere, de-materializzata, priva di consistenza e di caratteri distintivi. È una meta quasi obbligata, secondo Hannah Arendt: «Le arti che non realizzano alcuna opera hanno grande affinità con la politica».
Intenti a coniugare estetica e etica, i collettivi di Documenta affrontano concretamente i processi di organizzazione sociale ed economica. Attraverso l’arte, si impegnano per migliorare le condizioni di vita di alcune aree marginali. Per contribuire alla diffusione del senso critico, offrono alle popolazioni di zone povere un possibile accesso alla cultura e all’educazione; e avanzano soluzioni inedite di drammatici problemi. Ma, soprattutto, provano a innescare reazioni, veri cambiamenti.
Arte o attivismo? Più arte o attivismo? Saranno, queste, le domande che risuoneranno tra i visitatori di Documenta. Ci si imbatterà soprattutto in artisti poco attenti alla qualità stilistico-formale delle opere, portati a concentrarsi soprattutto sulla sfera dei contenuti e su quella dei messaggi, vittime di un pericoloso sociologismo, incapaci di saldare arte e pratica antropologica, registi di eventi partecipativi limitati, deboli, condannati a fallire, non troppo diversi da certe manifestazioni dei sindacati e delle associazioni non governative, incapaci di modificare in modo tangibile, dall’interno, le strutture sociali.
Forse, Documenta 15 sarà il teatro dove si metterà in scena il fallimento di un’utopia fragile.